Peaky Blinders, cosa ancora potevamo aspettarci? Non poteva esserci un margine di miglioramento, perché andava già tutto bene così, perché la serie tv di Steven Knight è uno dei migliori prodotti mai apparsi sul piccolo schermo.

Ma invece no, invece i nuovi 6 episodi di Peaky Blinders non si fermano, non si adagiano sulla dimensione già altissima su cui la serie è poggiata; la quinta stagione dello show va oltre ancora, si supera, con grande sapienza si inserisce in un nuovo ambiente fatto di politica e storia universale, di diplomazia e giochi di potere, razionalismo e follia. E diventa forse la più bella finora prodotta.

Tranquilli, quello che segue ora è rigorosamente un commento no-spoiler, perché di fatto, la storia ci interessa poco.

È Thomas stesso a dirlo, nell’incontro più eccitante della stagione, che le cose che accadono ruotano attorno a “guerre, tregue e clan rivali, niente che già non conoscessi“. Niente che già non abbiamo visto, insomma: in Peaky Blinders i punti focali sono sempre gli stessi, ma quello che cambia, che migliora ancor di più nell’ultima season, è la forza del racconto, sono le nuove coordinate di tecnica cinematografica con cui la storia viene raccontata.

Umorismo

La serie si riempie di umorismo; di classico, meraviglioso umorismo nord europeo, saturnino. Un sentimento che si avverte già nella fotografia delle prime scene: cieli cupi e ambienti scuri, fango, melma e fuoco. Stringendo lo sguardo, poi, l’impressione si conferma nei personaggi. Tommy è diverso: non viene ascoltato, la sua nuova calma apparente rischia di strizzare l’occhio all’inettitudine. La nuova maschera che indossa, quella di uomo di rilievo nello scacchiere politico nazionale, ha un costo. Un costo economico amplificato dal crack del ’29, e a cascata un costo di credibilità. La quinta stagione di Peaky Blinders si affaccia come mai prima a un precipizio: il crollo dell’eroe.

Tommy è vacillante: in famiglia, a Birmingham e nella Camera dei Comuni assapora una mancanza di controllo inedita, il terrore di essere letto dentro, interpretato: “Lizzie, non farmi paura, non mi dire che leggi cose sulla mia faccia“, intima alla compagna. Vive sempre più spesso momenti di totale distacco dalla realtà: visioni e istinti suicidi, le allucinazioni si moltiplicano, appaiono i fantasmi del passato, un passato che ha nuovi traumi oltre alla trincea, più freschi (Grace) e più antichi (la madre, una vecchia barca del padre). “Tuttavia c’è una parte di me che non mi è familiare e mi ritrovo sempre dentro di essa“, confessa Thomas alla sorella Ada: non c’è dubbio che il protagonista di Peaky Blinders potrebbe essere il protagonista di un grande romanzo del suo tempo. Per mantenersi allora in piedi in questa condizione psicologica, Thomas ha bisogno di replicarsi in un doppio perfettamente opposto a lui e dunque complementare: parliamo di Arthur, messo in scena da uno straordinario Paul Anderson oltremodo secco, nervoso e comico.

Tommy e Arthur diventano un personaggio unico in questa stagione, e alcuni tra i migliori spunti della sceneggiatura provengono proprio da questa fusione totale dei due fratelli, protagonisti indiscussi della stagione.

Teatralità e movimenti di camera

Di pari passo, cresce l’umorismo e si amplifica la teatralità delle interpretazioni. Non vogliamo velatamente inserire Pirandello tra queste righe, però il caso vuole che il nuovo profilo umoristico dei personaggi si declina con una recitazione spesso in overacting, dalla fortissima gestualità, tipica del palco più che del piccolo schermo. Questo è un ingrediente cruciale, perché diventa il modo migliore per approfondire le nuove traiettorie psicologiche (e psicanalitiche) che gli episodi tracciano. La componente teatrale collabora a braccetto con una regia molto dinamica, fatta di movimenti di camera mozzafiato e tormentati, proprio come gli animi dei personaggi.

Il piano sequenza è una soluzione ricorrente, così come le inquadrature mosse e vibranti, piani frontali, panoramiche, dialoghi a 180°… insomma, come ogni dettaglio in sceneggiatura diventa più viscerale, umorale, lo stesso accade per la mano che controlla la macchina da presa: si imbizzarrisce in un subbuglio di riprese scomode e perforanti, adeguandosi alla ulteriore crescita delle incandescenti performance attoriali.

La colonna sonora

E non poteva mancare un riferimento alla colonna sonora (tra l’altro finalmente in vinile), che è diventata essa stessa protagonista assoluta della serie, e nella quinta stagione si conferma ancora una volta un tassello fondamentale per il racconto. Infatti, nel solito bellissimo mix di alt-rock, Radiohead e Nick Cave, che ben si accosta alle ambientazioni del secolo scorso, emergono due brani dai nuovi episodi che meglio di tutte queste parole raccontano il senso della stagione. Le due canzoni sono Atmosphere dei Joy Division e Never Fight A Man With a Perm degli IDLES: la prima è il simbolo perfetto per rappresentare il nuovo malessere claustrofobico e primonovecentesco di Thomas, ma anche il fuoco che bolle nel corpo di Arthur. La seconda è invece la colonna sonora perfetta, con la sua frattura ironica tra suono e testo, per dare forma alle azioni e agli umori di Tommy: quanta distanza c’è tra lui e la realtà? Quale rapporto intercorre tra l’uomo che era e l’uomo che è diventato?

Il protagonista non ha più certezze a parte una: “uccidere è l’unico modo per farsi ascoltare“.

E la nostra certezza è che questa serie ha un unico difetto: dovrà purtroppo finire.