Si va al cinema con una certezza, andando a vedere Joker. Una certezza che è un mantra ricorrente da quando sono apparse le prime foto dal set (tantissime): questo non è un classico cinecomics. Non lo è per niente, lo si capiva dal trailer, dalla fotografia, dagli sguardi di Joaquin Phoenix, dalla colonna sonora. Ed infatti così è: il Joker di Todd Phillips non è un cinecomic come ormai tutto il mondo lo aspetta. Però, tuttavia, resta pur sempre un cinecomic e per quanto la produzione abbia deciso di cambiare le istruzioni del gioco, semplicemente, non l’ha fatto fino in fondo. In Joker si avverte infatti che non è stata presa una decisione drastica, si sente che si è seguita una idea, ma non si è sviluppata in tutta la stessa direzione, che è stata alla fine annacquata. Si sente che Joker poteva essere il film dell’anno, il rivale del colosso Marvel che non potendo vincere sulla spettacolarità, sceglie la qualità di stampo autoriale. Ma alla fine dobbiamo ridimensionarci: facciamo che la scala di valutazione “film dell’anno”, in dodicesimi, si riduca un po’, facciamo tipo che Joker è “il film di 8 mesi“, e forse siamo tutti d’accordo. Sì dai, vediamo perché Joker è il “film di 8 mesi“.

Un epilogo forzato

Non c’è niente da fare, vuoi scrivere un capolavoro cinematografico, ma alla fine se tale capolavoro deve sfondare al botteghino, non puoi permetterti di non farlo finire con un epilogo chiaro, lineare, definito. E molto spesso, un finale chiuso per forza, può interrompere e macchiare il tono dell’intero film. È ciò che accade in Joker, checché se ne voglia dire con le teorie sul suo finale, per molti enigmatico (gomblotto!), ma in realtà, pare, per niente critico, anzi. Infatti, da un certo momento in poi del film prevale prepotente l’urgenza di dare risposte ai dubbi che un uomo contemporaneo un po’ Amleto, un po’ uomo del sottosuolo, un pò Gregor Samsa suscita. In tutta una prima parte, sembra di assistere a un capolavoro esistenzialista: in una Gotham City che ricorda la New York di Taxi Driver o la Roma di Virginia Raggi, vediamo crescere la figura di Arthur che ricorda (e c’è nel film) il tassista Travis Bickle (o il trapper Traffik).
In un mondo in cui non è più possibile praticare la gentilezza, predomina l’incomunicabilità, soprattutto sentimentale. La risata nervosa di Arthur, invalidante, è il simbolo perfetto per rappresentare un mondo tragico: l’incursione della risata è un errore, una disabilità, una malattia da curare e giustificare. Ed è proprio l’inversione di tragico e comico a reggere tutta la tensione emotiva di una buona parte di film. Joaquin Phoenix pattina con disinvoltura tra i limiti invertiti di queste due condizioni d’esistenza e, in un crescendo psicologico, il film sì, nella nostra speciale scala, da gennaio a dicembre, sarebbe il titolo dell’anno, 12/12. Senonché, subentra la “storia“, subentra il “messaggio“, il maledetto messaggio universale ridotto ai minimi termini che deve contraddistinguere ogni racconto che viene prodotto per incassare 600 miliardi di dollari e staccare 9 miliardi di biglietti al cinema.
Comunque dicevamo: il messaggio. Che messaggio ci sciorina Joker?

Un eroe del popolo, un eroe populista

Nel momento in cui il Joker di Philips deve avviarsi verso un finale, molla la gran parte del buono che aveva generato fino a lì. Si rivelano in maniera spudoratamente diretta scene che lasciavano sacrosanti e accattivanti dubbi; si annacqua spudoratamente un *tema della madreh*, per di più intrecciandolo con la questione sociale e politica. Ed ecco qua. Ecco che la magia di un cinecomic che vuole stupire con la penna e non solo col green screen svanisce. La penna raffinata diventa un matitone spuntato; il ritratto magistrale che stava prendendo forma sullo scheletro imperfetto di Phoenix viene accartocciato e se non buttato nel cestino, poco ci manca. Non è tanto la scelta di aver reso Joker un eroe del popolo a macchiare il film, ma è più che altro la sua funzione populista a farlo. Il repentino spostamento di focus della storia dal dramma personale a quello sociale, cittadino, cambia i connotati della lingua del film, e dalla New York taxidriveriana ci ritroviamo teletrasportati – maledizione – nella Madrid de La casa de papel. Così, improvvisamente, mentre intanto ci domandavamo perché tutto si stava già di per sé spostando verso un banale schematismo edipico, di schema in schema, giungiamo al termine in cui il nostro Joker compie il suo personale e cruento vaffa-day, diventa idolo della rivoluzione e il suo balletto, del tutto ri-semantizzato nell’epilogo, si trasforma in uno slogan; non è più un inquietante, intimo e folle sfogo nervoso. Joker il Rottamatore, Joker MPC (Mr. Porti Chiusi).

“Perché?”, dunque, verrebbe da chiedersi. Come mai da un certo momento in poi di Joker, subentra travolgente quello stile che invece, dall’inizio, sembrava essere rimpiazzato da un nuovo modo di scrivere un cinecomic? Ci saranno dei buoni motivi. Fatto sta che sottraiamo molti mesi dal giudizio sul film, perché dai, si poteva evitare la declinazione populista del personaggio, si poteva evitare quella dialettica disagiati vs. agiati, ridotta alla fine con il più classico dei classici poveri vs ricchi, che ha monopolizzato il finale del film, con frasi a effetto, sentenze da condividere con orgoglio su whatsapp se sei nato dagli anni ’60 in giù. Ma c’è da dire che in contrappeso a qualsiasi macchia del film c’è una interpretazione di Phoenix che ha sfiorato i limiti massimi del possibile. Ed è per questo che da gennaio a agosto, Joker è il film dell’anno, nella ormai collaudatissima scala di valore cinematografico “film dell’anno”, altrimenti gli toglievamo severamente pure l’estate.