Finalmente è arrivato il momento di poter vedere Favolacce, il film che, con l’orso d’argento alla Berlinale 2020 per la miglior sceneggiatura, ha consacrato a livello europeo il talento dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo. Il film è cinema allo stato puro, e, per questo, essere costretti a vederlo per la prima volta on demand a casa è un’ingiustizia, ma tant’è: questi sono i tempi che corrono.

Favolacce è un film per cui ora, a parlarvene, non c’è paura di spoilerare niente, perché non c’è nessuna storia da svelare. Ma pur non essendoci una narrazione tradizionale, sono novantotto minuti che parlano tantissimo.

Di che (non) parla Favolacce

C’è una voce narrante fuori campo (Max Tortora) che legge il diario ritrovato di una bambina. Ma si capisce bene che quelle parole, molto affilate, non possono essere di una bambina; e quelle stesse parole ci fanno subito capire che stiamo andando incontro ad un film illogico, che va oltre il realismo; un film quindi privo di catene, un altro mondo, iperrealista. Un mondo, appunto, delle favole; ma favole dispregiative, compromesse e deformate nella loro struttura – e nel loro esito: “Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata”, questa è la premessa introduttiva di Favolacce. E questa linea viene rispettata.

Siamo in una zona periferica di Roma, Spinaceto per la precisione. Come ne La terra dell’abbastanza (primo film dei fratelli), l’ambientazione di Favolacce è un far west appena fuori dal raccordo anulare. Uno scenario sia alla Cormac McCarthy ma contaminato da cemento, ecomostri e Fiat Fiorino al posto del pick-up Ford; sia alla American Beauty, fatto di villette a schiera in apparenza regolari e ordinate, eppure prive di anima, infestate da una luce sinistra e avvolte da una malvagità invisibile, ma tangibile. Al centro apparente di Favolacce, c’è la famiglia Placido, che abita in una di queste case. La famiglia è composta da Bruno (Elio Germano), la moglie Dalila (Barbara Chichiarelli) e ci sono poi i bambini, Dennis (Tommaso Di Cola) e Alessia (Giulietta Rebeggiani), che è l’autrice del diario.

Vi aspettate qualcosa di importante da questa famiglia?

Se sì, fate male. Sono, in apparenza, la normalità della piccola borghesia provinciale e disillusa italiana: amore e odio col vicinato, bambini bravi a scuola, scorpacciate di cronaca nera in tv, merende fluorescenti, mascolinità tossica, pranzi e cene conviviali, feste di compleanno chiassose. Calma piatta, insomma. Da cui però, attraverso gesti inspiegabili e situazioni surreali, esce fuori la schiena della balena. Basta un boccone di carne andato di traverso a Dennis per causare una crisi isterica a tutta la famiglia, per esempio. Basta niente per aggiungere il suffisso “-acce” a queste favole, che hanno anche altri nuclei: si sviluppano, con lo stesso principio di inattività, attorno a Vilma Tommasi (Ileana D’Ambra), una stanca ragazza madre con le gambe livide, e Amelio Guerrini (Gabriel Montesi), un cameriere che vive con suo figlio Geremia (Justin Korovkin) in un prefabbricato in cui siamo soliti vederci Brad Pitt in Once Upon A Time in Hollywood o un personaggio di No Country For Old Men.

In questa Spinaceto western/residenziale piena di caldo e sudore, i fratelli D’Innocenzo coltivano una quantità di malessere ai confini del legale. Le loro favolacce consistono proprio in questo: in brevi scorci fatti di inquadrature geometriche e angoscianti, condite da un sonoro horror, che immortalano, sotto la luce di una fotografia aggressiva, incontri pericolosi, isterie inspiegabili, bambini e adulti sbandati. Il risultato di questi elementi, sono scene pulviscolari che, per sottrazione e senza mai cedere alla chiarezza, sondano il negativo di temi già negativi, portando all’estremo situazioni che oscillano tra disagio sociale e inadeguatezza alla vita convenzionale. Tutti, in Favolacce, sono orientati nella direzione sbagliata: i più piccoli sfiniti dai genitori, i più grandi sfiniti dalla vita.

Perversione, malessere, povertà e Paolo Meneguzzi

Di questo parla alla fine Favolacce. Una rappresentazione di surreali sagome derivanti dal complesso telaio di vita provinciale/periferico. È un racconto fatto di parole impiegate per dialoghi per lo più assurdi, e rimarrebbero tali se fossero solo dialoghi scritti; ma sono parte di un’espressione più grande, le parole sono subordinate alle immagini, alle inquadrature, al sonoro, alle luci. In questo film tutto risulta iper-reale perché tutto ciò che accade non ha la pretesa di “narrativizzare” né una situazione, né un contesto concreto; a travolgere lo spettatore non è la storia raccontata, ma la storia rappresentata. Queste rappresentazioni hanno il solo scopo di vivere dentro la scena: sta allo spettatore cogliere le enigmatiche evaporazioni che escono al di fuori dello schermo.

Il film mette in piedi una serie di scontri mortali senza che ci sia modo di scontrarsi – senza che nessuna bomba esploda, insomma. Non serve il clamore dell’esplosione in Favolacce; la lingua che parla è quella del silenzio della detonazione. Una lingua cinematografica simbolica e statica, minimalismo domestico à la Raymond Carver ma che si allinea all’estetismo enigmatico di Paolo Sorrentino, al mondo favolistico a tinte fosche di Matteo Garrone e, guardando oltre oceano, alle vibes tipiche della casa di produzione statunitense A24.

Finché esisteranno film come Favolacce, esisterà il cinema

Vedendo Favolacce, vedendolo a casa, viene in mente quanto può mancare il cinema. Questo infatti è un film da cinema, pensato per il cinema. Ci si potrebbe chiedere come una sceneggiatura che racconta una storia “falsa e poco ispirata” possa trionfare al Festival di Berlino. Favolacce è un film d’autore, è una produzione che racconta una non-storia disturbante attraverso i mezzi dello specifico filmico, e non attraverso gli snodi di un intreccio narrativo forte.

I fratelli D’Innocenzo isolano la loro inventiva al solo servizio del cinema, e lo fanno inoltre dichiarando una guerra (fredda) alla scrittura narrativa. A partire dal titolo dispregiativo del film (fabula è, tra le altre cose, la linearità narrativa), passando per l’espediente del diario ritrovato e giungendo a quel triplice schiaffo rifilato all’importanza della verità per una storia, con Favolacce, già nei primi cinque minuti di film, Fabio e Damiano D’Innocenzo firmano un manifesto sull’indipendenza e l’efficacia della creatività cinematografica.

Una storia che nasce “falsa e non molto ispirata” su carta, può essere trasformata in una memorabile storia “insensata, amara e pessimistica” solo dal grande cinema. Dal grande cinema che appartiene ai fratelli D’Innocenzo.

Favolacce doveva uscire il 16 aprile al cinema, ma non è stato possibile per la chiusura delle sale a causa del coronavirus.

Dall’11 maggio è disponibile on demand su Chili, Google Play, Rakuten TV, CG Digital, Infinity, TIMVISION e Sky, distribuito da Vision Distribution.