Ogni nuovo film di Quentin Tarantino monopolizza botteghino e discussioni; conferma la regola C’era una volta a… Hollywood, che, uscito nelle sale italiane mercoledì 18 settembre, si è subito proposto come la cosa più scottante del momento cinematografico (in lotta con Chiara Ferragni, certo).

Andiamo subito al dunque: il nono film di Tarantino è bello o è brutto? Domanda fondamentale ma alla quale non ce ne può fregare di meno rispondere, per ora.

Piuttosto, ci piacerebbe spostare l’attenzione altrove: cos’è il nono film di Tarantino? Ebbene, possiamo dirlo: C’era una volta… a Hollywood è una inedita declinazione del genio del regista, una cosa nuova che non ci aveva mai proposto prima. Anzi, facciamo due cose nuove. Si può infatti considerare questo film almeno secondo due ottiche: C’era una volta a… Hollywood è un inno, C’era una volta a… Hollywood è una favola.

E – state tranquilli – ognuna delle due ipotesi verrà illustrata senza spoiler.

Un inno al cinema

Il nono film di Tarantino è un inno al cinema.

Strano, è un Tarantino inedito, quello nelle vesti di cantore, di poeta. Ci ha abituati, certo, a una sterminata e spasmodica mole di citazioni inter e intra testuali del cinema mondiale, nel corso della sua filmografia; tuttavia, questa specialità è sempre stata una delle sensazionali caratteristiche dello stile tarantiniano, ma mai il perno centrale di un suo film. Invece, in C’era una volta a… Hollywood, i feticci venerati dal regista americano non sono solamente illustrati in una galleria museale di citazioni (che fanno sempre molto contenti i nerd della settima arte, per carità), ma si dinamizzano, diventano l’orizzonte mobile di tutto il lungometraggio, ne diventano esplicitamente il tema e al tempo stesso la forma.

Tarantino fa un inno totale al cinema perché col suo nono film ne esalta all’ennesima potenza la sterminata plasticità, la sua componente corale, il linguaggio misto – tecnico e narrativo – con cui è possibile raccontare una storia sul grande schermo. È un inno ai mezzi tecnici, perché vengono impiegati e diventano essi stessi portatori di significato. Il sonoro, i costumi, le scenografie, la fotografia (si alternano a ritmo incessante riprese girate in 35mm, 16mm, 8mm), la “scatola” dentro cui sono contenute le riprese (si muovono in continuazione i limiti dell’aspect ratio, si espandono nel 2.39:1 e si contraggono nel più televisivo 1.33:1): non sono semplici citazioni in C’era una volta a… Hollywood, ma si dinamizzano, respirano di vita propria, sono protagonisti assoluti.

Così come ogni altro elemento dell’industria cinematografica e televisiva tra anni ’50 e ’60. I set, i camerini, Cliff (Brad Pitt) e chi come lui, le figure dei truccatori, dei costumisti, i registi, i produttori, i manager e tutti gli altri addetti ai lavori che rendono possibile un film: sono il popolo di C’era una volta a… Hollywood, sono coprotagonisti, sono il retroterra fondamentale su cui il film poggia, sono i mezzi attraverso cui Tarantino può improntare un discorso meta-cinematografico. E farlo nella maniera più dinamica possibile: nelle vesti, appunto, di un poeta che vuole esaltare le gesta di questi “eroi”. Un poeta del suo popolo.

Una classica favola

Andando a guardare il nono film del regista di Pulp Fiction, dobbiamo ricordarci che andiamo incontro ad una favola. Senza dubbio. Ce lo suggerisce, in partenza, già il titolo. Ed è proprio la trama favolistica ad aver fatto storcere il naso a molti palati poco fini, che un film lo sanno apprezzare solo per l’azione movimentata e il ritmo sostenuto. La favola, al contrario, ha unità spazio-temporali chiare, lineari; ha un intreccio anti-Nolan ed ha, soprattutto, uno schematismo nettissimo: i buoni che vincono sui cattivi, vittoria da cui nasce la cosiddetta “morale” della favola.

Quindi sì, abbiamo un inedito Tarantino poeta, per di più moralista! Ma per quale morale si è – diciamo così – sporcato le mani, ed ha assunto un ruolo così distante dalla sua personalità? Per la più banale di tutte: l’amore vince sempre. Tuttavia, c’è una piccola modifica: per Tarantino, l’amore è il cinema, quindi la morale diventa: il cinema vince sempre. Vince nel mondo della finzione come nel mondo reale. Infatti, nella lotta dei buoni contro i cattivi, la favola C’era una volta a… Hollywood schiera da una parte il “popolo” del cinema contro chi questo popolo vuole sterminarlo.

La figura di Charles Manson, che trova spazio microscopico nel film, è utile proprio a questo, come simbolo di un amore malato nei confronti del successo e degenerato nel peggiore dei modi. La Family collegata al criminale è una comunità parassitaria, che vive in un set abbandonato degli anni ’50, che fece la fortuna di Rick Dalton (Leonardo Dicaprio); è una comunità che ha sete di perversione, che nutre invidia e rabbia sotto il potere dei fiori, che non riesce a scindere l’arte cinematografica dalla crudezza della vita, e che pertanto non vede differenze tra un attore che uccide sul set e un soldato che uccide nel Vietnam.

Negli anni in cui si volevano abbattere gli orrori della guerra con la retorica dell’amore, Tarantino sembra dirci che alla fine, quest’amore, si poteva alimentare tramite valori umani, e non necessariamente seguendo lo stile di vita di un’ideologia. E questo valore, si può riconoscere nell’amore, che per Tarantino corrisponde al cinema. Molte traiettorie della sceneggiatura possono confermare questo tema portante, ma era una promessa, niente spoiler; quindi, cerchiamo adesso soltanto di riassumere quella che può essere una chiave di lettura del film, utile sia prima che dopo la visione.

Per la prima volta con una tale intensità, il combustibile del genio tarantiniano viene impiegato per un atto totale d’amore. Tarantino, a suo modo ovviamente, abbandona trame cervellotiche, sceneggiature labirintiche, personaggi enigmatici e converte il talento che da sempre ha impiegato per questi elementi in una inedita compartecipazione emotiva nel film che ha scritto e girato. Non sembra nemmeno un film suo? potrebbe, a primo impatto. Ma proprio perché il cambiamento è paradigmatico: la cinefilia del regista non è stavolta solo un’incursione corsara all’interno del mondo del film, ma è essa stessa il film.

C’era una volta a… Hollywood è il lungometraggio con cui Tarantino ha convertito le sue manie in amore puro, rendendo quest’ultimo il vero protagonista del film. Sarà che anche Quentin ormai è diventato grande… si è sposato.

p.s.: ai piedi, comunque, in ogni caso, non si comanda.