Hanno l’illusione del libero arbitrio, ma, in realtà, sono io a decidere il finale.

A meno che non stiate trascorrendo le vacanze in un rifugio sul K2, avrete sicuramente notato l’incanalamento dell’attenzione social verso due principali argomenti di discussione: in primis la luculliana quantità di cibo fogocitata durante le festività, in secundis – ma di poco – l’uscita del nuovo film interattivo targato Black MirrorBandersnatch.

Premessa

Black Mirror ci ha spesso abituati alle release sul finire dell’anno, senza mai premere troppo sull’acceleratore dell’hype ché, tanto, come abbiamo visto, il chiacchiericcio si crea da sé. Considerati gli argomenti trattati dalla serie, far uscire il proprio prodotto in quei giorni di transizione tra la fine dell’anno e l’inizio del nuovo, quando i più si barcamenano come zombie satolli di primo mondo tra divano e frigorifero senza nemmeno ricordarsi se sia mercoledì o sabato, proprio quando l’ansia del “nuovo inizio” è alle stelle, non può essere un caso. (Piccola digressione sul tema: questa strategia è stata spesso adottata, in musica, anche da chi ha saputo raccontare – forse meglio di chiunque altro – quella particolare atmosfera di fine/inizio, il presente disastrato di una generazione: Burial. Chiusa parentesi).

Tutto ciò acquista ancor maggiore significato nel momento in cui l’episodio in questione è, come detto, interattivo; ci chiede quindi di fare qualcosa, di uscire da quel torpore indolente fatto solo di coperte-con-le-maniche e pantaloni-del-pigiama-nelle-calze.
Al netto di una trama che banale è dir poco e del generale declino del brand Black Mirror, ormai edulcorato dall’ingresso di Netflix, è l’aspetto esperienziale di Bandersnatch che mi preme analizzare di seguito.
Ma andiamo con ordine (senza spoiler rilevanti).

Come già scritto su ogni zine del mondo, l’idea di interattività dell’episodio si rifà (anche concretamente nell’intreccio narrativo) a quei librogame tanto in voga negli anni ottanta: messo davanti a dei bivi, è lo spettatore a decidere per il protagonista; si va dalla scelta (futile?) dei cereali, alla colonna sonora (Tangerine Dream o Isao Tomita?) che influisce solo sul livello fruizionale dell’episodio, sino a veri e propri turning point che condizionano il destino del protagonista, delineando 5 finali differenti (!).

Futurabilità e l’illusione del libero arbitrio

Nella versione italiana (aggiornata e ampliata, pubblicata da Not quest’anno) del suo Futurability, Franco “Bifo” Berardi fonda la sua analisi del presente sul trittico possibilità-potenza-potere, dando una definizione esaustiva per ogni termine: “Definisco possibilità un contenuto inscritto nella costituzione presente del mondo. […] Potenza è l’energia che trasforma le possibilità in realtà concrete. […] Il potere è la selezione e l’imposizione di una possibilità tra molte, e al tempo stesso è l’esclusione (e invisibilizzazione) di molte altre possibilità”. I tre attori si compenetrano e interagiscono nel magma delle futurabilità, vale a dire “la molteplicità di possibili futuri immanenti: un divenire altro, che pure è inscritto nel presente”.
Traslando tutto nel contesto di Bandersnatch la situazione si fa intrigante, quanto meno a livello teorico: le futurabilità sono insite nella narrazione dell’episodio e il potere è esercitato dallo spettatore. Ma è davvero così?

No, non è davvero così

Il concetto di interattività agisce all’interno dello schema prestabilito, della sovrastruttura fornita da Netflix, e da questa gabbia, per ovvie ragioni, non può uscire. La fascinazione del post-umanesimo che eleva l’uomo a deus-ex-machina si esaurisce ben presto, venendo liquidata con commenti riconducibili tutti a un generale “non ho voglia/tempo di prendere decisioni”. La ricerca dei diversi finali diventa snervante, così come la mancanza di una durata fissa prestabilita (si va dai 40 minuti alle 2 ore), se non addirittura una barriera all’ingresso per chi, di fronte a un prodotto cinematografico, vorrebbe solo abbandonarsi all’immedesimazione o al caro vecchio relax. Anche chi, come il sottoscritto, è partito incuriosito dal format, ha visto la magia rompersi via via che il significato dell’esperimento si è palesato: certe cose accadono sempre, che lo si voglia o no, è impossibile evitare la volontà della macchina (Netflix); le varie decisioni lungo il percorso e i cinque finali diversi (in fondo poi nemmeno così tanto) non sono altro che semplici specchietti per le allodole.

È tutta una gigantesca trollata, per dirla in linguaggio dei meme, che fa il giro e torna addirittura indietro, veicolata dalle frequenti esplicitazioni del meccanismo stesso attraverso le parole dei personaggi: “Sento di non essere io a decidere, ma qualcun altro”, “Il nostro destino è già scritto, è fuori dal nostro controllo”, “Siamo solo marionette”, sino a “Il concetto di libero arbitrio è affascinante” anche se “Il libero arbitrio è solo un’illusione”.

GAME OVER: ribaltamento dei ruoli

Tirando le somme, se Bandersnatch non racconta una storia poi tanto originale né avvincente e se l’interattività stufa, cosa rimane? Una velata e puntuale analisi del presente.

Innanzitutto, sebbene sia ambientato negli anni 80, il mondo in cui si sviluppa la narrazione è il nostro presente, con tanto di peso delle convenzioni sociali incarnate dal peluche del bambino (è impensabile per i nonni vedere un maschio di cinque anni “giocare con le bambole”), di pressioni lavorative e deadline sempre più imminenti e snervanti, con il corollario di ansia, disturbi psichici e sensazione latente di fallimento come normalità del quotidiano. In secondo luogo, le agenzie del complotto – più o meno fittizio – che si figura nella messinscena sono tutte le più ovvie che vi possano venire in mente e, per estensione, rappresentano la struttura-governance del neoliberismo stesso. Infine, i protagonisti della narrazione, quelli che hanno solo l’illusione del controllo ma che il controllo in realtà lo subiscono, siamo noi.

È “il mondo del game over integrato” (come definisce Bifo l’idea che stava dietro l’invenzione dei primi videogiochi) attuato nella realtà presente e noi siamo solo piccoli personaggi alla mercé di un narratore spietato, inseriti a forza in un racconto che non abbiamo scritto.
Noi, ora come ora, siamo destinati a perdere.

TRY AGAIN: verso un mondo migliore

Non avendo una soluzione per uscire dall’impiccio e salvare finalmente l’umanità intera, voglio chiudere questa riflessione sottolineando, con grandissimo orgoglio nazionale, che Lorenzo Senni compare nella colonna sonora del film con The Shape Of Trance To Come. In un’ottica di questioni future, questa scelta, azzeccata sul piano di intenzioni ed estetica, può essere vista come una metafora molto eloquente di come l’arte possa incarnare la miccia del cambiamento, apportando visioni dapprima considerate impensabili. La musica di Senni (così come tantissima altra musica, così come tantissima altra arte), infatti, destabilizza proprio perché nasce da idee imprevedibili, perché rifugge e disgrega i paradigmi calati dall’alto, discostandosi dal pensiero dominante e da quello che l’industria musicale normalmente si aspetterebbe. È il simbolo di come l’arte debba rimettere in discussione la realtà presente per creare consapevolezza e ripartire, una volta per tutte, verso un mondo migliore.