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Alla base delle culture musicali che hanno caratterizzato la storia dagli anni ’50 a oggi si rintraccia sempre un tentativo di tradurre linguisticamente una sensibilità, un’estetica, un modello di vita che accomuna persone che ascoltano la stessa musica. La comparsa del termine hipster rappresenta un primissimo esempio della tendenza ad etichettare una scena culturale, in questo caso quella degli anni ’20-’40 che ripropone in America la scena bohémien europea, sulla base del modo di pensare e sentire legato alla libertà dagli schemi tipica del jazz.

Nelle ultime due decadi i termini che definiscono le culture musicali, e in seguito i generi musicali stessi, hanno iniziato a diffondersi tra webzine e blog di settore secondo forme che esprimono spesso il mood a cui si ispira un determinato stile musicale oltre che i generi da cui deriva. Ecco quindi che compaiono nomi curiosi, a volte ridicoli e altre impronunciabili, che racchiudono in un’etichetta un immaginario, una storia o semplicemente un incidente di percorso.

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In questo articolo vi riportiamo 14 termini di generi musicali tra i più significativi per il loro primo utilizzo o per la fatalità con cui sono comparsi e si sono imposti nel gergo musicofilo.


 

chillwave

chillwave /tʃɪl-weɪv/
n. agg.
(2009, USA)

Nel 2009 un mucchio di band provenienti dai più disparati punti degli Stati Uniti, la maggior parte delle quali non era al corrente dell’esistenza delle altre, si ritrovò menzionata tra le righe di una delle bibbie della alternative cultureHipster Runoff. Qui il blogger Carles propose una serie di nomi improbabili che definissero il gusto condiviso da questi gruppi verso il un pop elettronico dalle tinte calde e imbevuto di synth. Tra tentativi che rimandavano al genere musicale di origine, come “freakgaze” o “conceptro” music, Carles optò per chillwave andando a deporre più o meno incosapevolmente una pietra miliare: nel giro di un decennio il termine è entrato nell’uso comune finendo nel lessico, tra gli altri, del Wall Street Journal.

Come spesso accade, il termine non fu accolto da subito positivamente dai gruppi che se lo videro affibbiato. Band come Neon Indian, Washed Out, Toro Y Moi e Small Black si sentivano meglio rappresentate dall’etichetta più cool di glo-fi, che veniva a configurarsi in quegli anni come possibile nome di questo pop elettronico nostalgico di shoegaze. E invece “chillwave” – un genere nato nell’era di internet – ha avuto il merito di imporsi al di là delle scene, dei luoghi geografici o delle label, andando a collegare artisti solo in base al loro sound. Saltato fuori per prove ed errori, il termine chillwave ha smesso presto di generare resistenze, venendo poi assegnato ad una seconda generazione di chillwavers in cui si ritrovano Panda Bear, Animal Collective e artisti che arrivano fino a Youth Lagoon.


 

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cloud rap /klaʊd-ræp/
n.
(2010, USA)

In un articolo del 2010 per il blog Spaceagehustle, Walker Chambliss (anche noto come Walkmasterflex) scrisse che Squadda B del duo hip-hop americano Main Attrakionz suonava come “il re del cloud rap“, convinto che questo termine fosse già stato utilizzato dal giornalista rap Noz in un’intervista con Lil B.

Quello che in realtà si legge nell’intervista di Noz del 2009 è:

Lil B mi ha mostrato l’immagine di un castello sradicato fluttuante tra le nuvole, dicendomi ‘questo è il genere di musica che voglio fare’.”

Errore o svista, in un paio di mesi, con l’uscita della compilation rinominata da Chambliss 3 Years Ahead: The Cloud Rap Tape, il termine cloud rap andò a definire spontaneamente quasi tutti i tipi di rap lo-fi, avvolti da una nebulosa, che si fanno strada nella rete. Ha a che fare con la chillwave e l’hip-hop, andando a inglobare liberamente artisti che vanno da ASAP Rocky a Lil B.


 

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donk /dɒŋk/
v., n., agg.
(c.2000-3, nord-ovest Inghilterra)

Entrato nell’uso comune nel 2008 nella zona nord-ovest d’Inghilterra grazie al pezzo Put A Donk On It dei Blackout Crew, il termine donk era già comparso intorno al 2004 con la formazione dei Donk Devils e dei King Of Donk. Chiaramente la parola, giocando sulla provenienza da donkey (asino), fa riferimento al non-sense che domina il genere, considerabile l’apoteosi della dance music ridicola.

Donk è un nome olandese, che accenna in questo ad uno stereotipo inglese abbastanza noto, e in musica definisce un techno-hardcore allegro. La sua caratteristica assenza di un senso particolare ne fa il termine più versatile dell’intera lista, adattabile ai più vari utilizzi: come nome (“put a donk on it”), come verbo (“donk something up”), o anche come aggettivo (“that’s proper donk”). Ma anche “la mamma del donk è sempre incinta”.


 

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dubstep /ˈdʌb-stɛp/
n.
(c. 2002, Londra)

Letteralmente, dubstep deriva dall’unione delle due parole dub – forma musicale caraibica – e step – suffisso che si applica spesso a determinate parole che vanno a definire un genere musicale (ad esempio 2-step o clow-step). Il termine è stato coniato dal DJ Hatcha (uno dei primi supporter delle future icone dupstep Benga, Skream e Loefah, proprietario del Big Apple Record Store a sud di Londra), che parlò nel 2004 di dubspot come dei primi club minimal, un po’ dub, in cui si ascoltava questo genere musicale.


 

edm

electronic dance music (EDM) /ɪlɛkˈtrɒnɪk-dɑns-myuzɪk/ (/i’di’ɛmˈ/)
n.
(c. 2010, USA)

Fino al 2009 in Nord-America parlando di electronic dance music (EDM) si intendeva esattamente “musica elettronica per ballare, fatta al computer invece che con le chitarre”. Intercambiabile, nell’utilizzo, con il termine electronica, la definizione edm poteva risultare comunque poco esaustiva anche in una cultura musicale che non conosceva a fondo la house e la techno, invece emerse, seppur sporadicamente, in Europa dagli anni ’80 in poi.

Ma sul finire degli anni ’90 i giovani americani che sfrecciavano verso Las Vegas scoprirono l’esistenza di DJ come Paul Van Dyk, conosciuti da un pubblico che sembrava catapultato da un decennio impreciso (le ragazze giravano in bikini da giorno e portavano stivali con la pelliccia). La musica che si ascoltava non era un indistinto miscuglio di trance, electro, techno e dubstep.

La electronic dance music va oltre i generi: quello che artisti come Skrillex, Steve Aoki e Avicii hanno in comune è la capacità di veicolare picchi di euforia e attraversare i pensieri, un’alta drammaticità che passa per la lucentezza del digitale.

Ad ogni modo la nascita del termine EDM potrebbe essere principalmente una mossa di marketing con cui, nell’era dei rave, esperti promoter davano ai loro eventi virtualmente fuorilegge un’aria di legittimità. Una terminologia con cui prendere le distanze dalla vecchia scena dei rave, endemicamente votata dall’uso di droghe. In questo caso più che di un genere musicale si dovrebbe fare riferimento alla electronic music dance come a un fenomeno demografico. Ipotesi supportata, questa, da ricerche recenti che evidenziano come i fan della EDM sono legati semplicemente al fatto di partecipare agli eventi, ma non ascoltano effettivamente questa musica al di fuori delle serate.


 

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fidget house /ˈfɪdʒɪt-haʊs/
n.
(c.2005-9, Londra/Los Angeles)

Nei club che popolavano entrambi le sponde dell’Atlantico un sottoinsieme eterogeneo di electro house andava a influenzare il big beat con sound in continuo scambio tra luoghi molto distanti.

Se il termine fidget (letteralmente: agitarsi, dimenarsi) definisce indubbiamente la musica ansiosa a cui fa riferimento tale genere musicale, l’utilizzo del termine fidget house racchiude un aspetto più ironico. Nel 2008 Jesse Rose dichiarò infatti, a DJ Mag, che la diffusione di questo termine si deve a :

“un gioco che si è spinto troppo oltre. Io, Switch, Trevor Loveys e Hervé facciamo e suoniamo fidget house, e pur avendo influenze differenti, siamo tutti influenzati da una musica che non è house dritta, semplice”

Ci troviamo di nuovo di fronte a una scena che non esiste realmente al di fuori di internet, e sembra che il nome fidget house rappresenti semplicemente un’etichetta per i blogger da assegnare al campo “genere” di iTunes prima di fare l’upload di alcuni pezzi.


 

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juke /dʒuk/
n. v.
(tardo ‘800, America del Sud)

Le origini del termine juke sono avvolte in una nebulosa così come il genere musicale stesso. Sappiamo che le juke house o i juke joint, nell’America del Sud di fine ‘800, erano i club in cui i neri americani ballavano (letteralmente: to juke) uno accanto all’altro. In questo contesto si ritiene che il termine juke sia derivato da “joog“, parola derivante dal Gullah (forma linguistica Creola, di base inglese, parlata sulle coste del South Carolina e della Georgia) che indica qualcosa di non inquadrato e di oscuro.

Mentre il suo utilizzo più recente, come nome di un genere musicale popolare nell’area di Chicago e accompagnato dalla footwork dance, sembra andare a ripescare il termine negli ambienti underground anni ’90 per definire una sorta ghetto house.


 

moombahton

moombahton /mum-bɑ-tɒn/
n.
(c. 2009, USA)

Nell’autunno del 2009 il DJ e producer Dave Nada si occupò di mettere musica alla festa degli amici liceali di suo cugino, principalmente latino-americani. Le musiche all’ordine del giorno erano bachata e reggaeton, niente a che vedere con i dischi techno e house che Nada aveva a portata di mano. Pur pensando che quella plebe avesse gusti musicali di merda, non poteva rovinare per sempre la reputazione ad un liceale lasciando gli invitati della sua festa senza musica.

Così Nada realizzò che rallentando i dischi di house olandese che aveva con sé, come l’Afrojack remix di Moombah, avrebbe riprodotto qualcosa che somigliava molto al ritmo base del reggaeton. La sua versione di Moombah a 108 bpm divenne una hit e diede anche il nome al genere di musica che riporta le caratteristiche qui sopra individuate.


 

Purple dictionary

purple /ˈpɜrpəl/
n., agg.
(2008, Bristol)

La parola purple si riferisce solitamente al sound di Bristol che identifica la musica di Joker, Gemmy e altri artisti, talvolta accompagnata dal suffisso -wow, e compare nel 2008 in un’intervista di Joker, che, prendendosi gioco del suo intervistatore, dice di aver prodotto “un beat che suona porpora“.

Anche Gemmy, che aveva pubblicato da poco una traccia intitolata Purple Moon, parlava come di “un inizio di tutte le cose porpora“. Chiaramente la sfumatura del termine purple si cela dietro gli ascolti musicali di questi producer, notoriamente ispirati alla crew rap americana dei Diplomats che fa molto spesso riferimento alla purple haze. Potremmo considerarlo alla stregua di un lapsus freudiano, ma di fatto identifica il beat di Bristol.


 

seapunk dictionary

seapunk (/ˈsiˌpʌŋk/)
n. agg.
(2011, Brooklyn)

Il seapunk si diffonde come fenomeno virale impertinente, partito da ragazzini di Brooklyn con l’ossessione per l’arte e i delfini, ma contiene una base culturale molto più solida della maggior parte dei generi identificati dai termini di questo breve dizionario.

Ha tutti i caratteri della cultura musicale: una scena realmente esistente – quella di Brooklyn, un’etichetta discografica – la Coral Records, ed un unico immaginario estetico di riferimento – i detriti digitali degli anni ’90 – che vanno dal videogioco cult Ecco The Dolphin alle immagini pixellate del simbolo yin-yang. Il DJ e producer Lil Internet, considerato colui da cui ha origine il seapunk, dice di aver avuto l’ispirazione dopo “un sogno surreale in cui si era raffigurato mentre indossava una giacca di pelle decorata con dei cirripedi.

Sempre ai pionieri del seapunk si sono ispirate per i loro capelli turchese Rihanna, Azealia Banks e Katy Perry. E ai tristoni che si lamentavano dell’entrata nel mainstream delle forme espressive del seapunk, lo stesso Lil Internet ha risposto via Twitter:

Kids! #Seapunk is safe! Culture is free for everyone to share!

Convincente a livello culturale, ma carente dal punto di vista musicale, il seapunk consiste in un ultra-digital mash-up del frenetico hardcore anni ’90, inserti di plastica qua e là, milkshake in cannuccia e altra roba new age.


 

Skweee dictionary

skweee /skwi/
n.
(2006, Finlandia)

Altro termine coniato a partire dalle sensazioni che ispira la musica in ascolto è lo skwee, con cui il DJ scandinavo Kool Dust lo definisce “la genesi dell’ultimo genere elegante nella musica contemporanea“, spiegandone la nascita a Skweeelicious:

I had just gotten a new synthesizer, the Roland Alpha Juno1 and fell in love with it. My idea was to make a couple of tracks using nothing but the Juno for drums and everything. I came up with the name, (I originally spelled it ‘squee’) while trying to squeeze the juice out of my Juno till the last drop. That was my first 7″ for Flogsta Danshall and the first tracks I did using the skweee formula – ‘Bubble Bump’ and ‘Yu Love Bibimbab’ at 106 bpm. Pavan wanted to call it “prim” (primitive), but Randy Barracuda recognized that my name was stronger. So there was skweee.


 

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trap /træp/
n., v.
(c.2003, Atlanta)

Il termine trap è utilizzato al Sud degli Stati Uniti in riferimento ai posti in cui si può trovare droga – trap house, e conserva in ogni caso una connotazione negativa, come di “situazione dalla quale non si può uscire”.

La sua prima comparsa a delineare un genere musicale si deve a T.I. con Trap Muzik, Young Jeezy con Trap or Die e Gucci Mane con Trap House, che mantengono nell’uso della parola trap l’essenza dei party crunk con racconti di storie di vita e dalla strada. Successivamente a questo genere musicale si aggiungono, con Lex Luger, si aggiungono synth e drum machine che esulano dagli esordi della trap music, approdando vero territori più elettronici, fino ad arrivare a definire trap Harlem Shake di Baauer.


 

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witch house /wɪtʃ-haʊs/
n.
(2009, Denver)

Un altro genere nato per gioco ad opera di Travis Egady (aka Pictureplane) è il witch house, con cui lui e i suoi amici Shame definivano, non troppo seriamente, la propria “musica house basata sull’occulto“.

Una volta comparso su Pitchfork, il nome sembra aver fatto presa in modo particolare sul pubblico, evocando uno shoegaze doomy, intriso fortemente degli eventi di Salem. A questo evento fortuito, che ha il carattere di un semplice post su Myspace, la band di Travis Egady deve gran parte della sua popolarità.


 

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wonky /ˈwɒŋki/
agg.
(c.2008-9, Inghilterra)

Da non confondere con wonky techno (termine che identifica una schiera di producer di un tipo di techno che rifiuta il 4/4), il il termine wonky è stato coniato da Martin Clark in un articolo di Pitchfork, definendolo:

a theme, not a genre, defined by its off-kilter, unstable synths … crossing hip-hop, hyphy, grime, chip tunes, dubstep, crunk and electro

Gli artisti a cui fece riferimento Clark per il wonky (Hudson Mohawke, Ikonika, Flying Lotus e Guido) inizialmente rifiutarono questa classificazione per via di un articolo di Simon Reynolds che mostrava il legame tra wonky e ketamina.

In questo caso l’accezione negativa restò talmente forte nel termine wonky che, diversamente da altri casi di classificazione di genere musicale, non se ne ebbe mai un riscatto.