Get Lucky dei Daft Punk è più di un orecchiabile jingle, di un’allegra hit estiva sulla quale danzare goffamente felici tutti insieme adorabilmente in centro paese. È fonte d’ispirazione non soltanto per giovani acerbi amatori della musica e per nostalgici selecta da revival, per fricchettoni un po’ radical e per il pubblico del mainstream, lo è anche per tutti i visionari che riescono a vedere nel semplice binomio del nome, Get-Lucky, non un semplice auspicio di fortuna autodeterminata, bensì lo stesso realizzarsi del sogno americano.
Economies of scope, opportunità imprenditoriale latente, chiamatela come volete, ma se esiste al mondo qualcuno che a quarant’anni indossa con orgoglio una maglietta degli Avenged Sevenfold, o, perché no, di Pippo e Pluto, allora sicuramente esisterà anche un vasto mercato per una linea di merchandising fricchettonamente anonima targata Daft Punk.
Quando comprerete, dunque, una maglietta con l’effige daft punkiana, ricordate: non starete acquistando un semplice indumento. Starete acquistando un sogno, un’icona post moderna o, nel caso dei preservativi in collaborazione con Durex, l’emblema della vostra mascolinità in falsetto.
Anzi no, scherzavo, non c’è nulla di poetico in una serie mass prodotta di anonime magliette e di cinture dallo stile alquanto discutibile.
O forse qualcosa di poetico c’è, il commercial nostalgicamente retrò, quello sì che lo comprerei.
Per concludere, vi lascio con una riflessione del noto filosofo contemporaneo Jahmall, che, per quanto riferita all’amico Kanye West, può essere facilmente riadattata al contesto: