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Sono seduto al tavolo di un prestigioso ristorante. La sala è illuminata dalla luce fioca di eleganti candele bianche. Ripongo il menù sul tavolo dopo averlo attentamente consultato. Lascio la mia ordinazione al cameriere: trancio di salmone con patate. Il cameriere torna al mio tavolo e mi porge il piatto. Finisco di mangiare. Sono soddisfatto. Chiedo al cameriere di chiamare lo chef per potermi congratulare. Lo chef si presenta in sala. Gli faccio i miei complimenti per il salmone. Lo chef mi chiede se ho apprezzato le scaglie di mandorla, la cipolla caramellata, l’aneto e le zeste d’arancia. Rimango un attimo in silenzio. Faccio mente locale. Non ricordo d’aver percepito alcuno di questi sapori. Scopro che il cameriere, per ottimizzare il trasporto dei piatti, aveva rimosso gli elementi decorativi. Si giustifica dicendo che mi farà pagare un prezzo ridotto. Sono sazio, ma alla luce di ciò, anche un tantino amareggiato.

Sono curioso di sapere come sarebbe stato, in realtà, quel trancio di salmone.

Vi state forse domandando cosa tutto ciò abbia a che fare con la musica. Beh, sappiate che, tutti noi, ogni singolo giorno, siamo protagonisti di episodi molto simili. Siamo vittime inconsapevoli della compressione digitale.

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Le registrazioni musicali esistono ormai da un secolo. Nel corso dei decenni abbiamo visto venire alla luce una serie di supporti che ci hanno accompagnati quotidianamente, ciascuno con i propri pro e contro, nella fruizione dei contenuti audio che hanno sistematicamente allietato le nostre giornate.

Gli anni ’60 sono stati gli anni del vinile. Prendevi un vinile, lo appoggiavi sul piatto, posizionavi con dolcezza la puntina e gustavi quei pochi secondi di caldissimo silenzio prima dell’inizio della prima traccia, la prima di un meraviglioso viaggio che ti accompagnava fino alla fine del disco.

Gli anni ’80 hanno introdotto le musicassette che hanno avuto il grande merito di aver fornito una maggiore comodità di trasporto e, con l’uscita dei walkman, aver reso l’esperienza di ascolto più intima, individuale e, soprattutto, on-the-go.

Gli anni ’90 ci hanno regalato i CD, che hanno portato con sé un’esperienza artistica arricchita di elementi fisici, tradotti nei testi e nelle foto dei libretti inseriti nella custodia di plastica, e la grande comodità di poter saltare rapidamente da una traccia all’altra.

Nello stesso decennio sono stati inventati gli Mp3, il formato che, più di tutti, ha rivoluzionato per sempre lo scenario musicale, nel bene e nel male.

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La musica digitale è frutto di un processo di compressione ottenuto attraverso l’utilizzo di algoritmi in grado di intuire quali componenti di una traccia non saremo in grado di percepire per poi eliminarli, arrivando a rimuovere fino al 90% della canzone originale.

In realtà, andando ad analizzare una canzone nel dettaglio delle sue sfumature, appare evidente che il processo di compressione va a privarla di parte della sua emozione diluendola, rendendola più piatta. La compressione agisce sulle alte frequenze, quelle che rendono le voci e le chitarre così acute e limpide, e ovatta gli elementi che rendono la musica speciale: percussioni, piatti, clap, click

Un file digitale non riflette dunque il prodotto originale. Un MP3 non permette di apprezzare la complessità frutto del lavoro in studio, ciò che l’artista aveva realizzato e che desiderava arrivasse tale e quale all’ascoltatore. Perché alla fine la musica è uno strumento di comunicazione, è un linguaggio che ci unisce e modificare questo messaggio corrisponde a censurare parti di un discorso.

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Ciò che è più grave è il fatto che, oggigiorno,  la qualità della musica che “consumiamo” non sembra interessarci. Siamo la generazione del fast food: basta che sia comodo, funzionale, economico. Ovunque andiamo, siamo circondati da musica: Radio, PC, smartphone, lettori mp3. Ascoltiamo musica di pessima qualità attraverso casse e cuffie che sono più oggetti di design e fashion statement piuttosto che oggetti in grado di riprodurre efficacemente della musica.

In realtà l’unico barlume di speranza rimastoci è rappresentato dalla nostra mancanza di consapevolezza: nessuno ci dice che la musica che stiamo ascoltando è di bassa qualità, nessuno, nemmeno gli artisti stessi, ci riferiscono ciò a cui stiamo rinunciando. L’industria musicale, per il proprio bene, dovrebbe invece mettere in luce i vantaggi della musica non compressa, anziché ridursi a fornitrice di contenuti di facile fruizione. Messi di fronte all’evidente divario qualitativo tra un formato originale e uno compresso, chiunque è in grado di giungere alla conclusione che ci stiamo perdendo una grandissima parte di ciò che rende la musica così speciale, così in grado di stimolare quelle sottilissime corde che abbiamo nello stomaco e lungo la schiena che ci fanno oscillare la testa a tempo, muovere i piedi e farci venire la pelle d’oca.

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Dall’altro lato, però, la compressione ci ha permesso di diventare fan della musica in maniera maggiore: abbiamo accesso immediato e gratuito ad un database illimitato di musica, tanta quanta non avremo mai tempo di ascoltare in una sola vita. In realtà, rimanendo nella metafora del cibo, ci stiamo riempiendo la pancia, senza pensare a riempire la nostra anima. Stiamo rinunciando ad una grandissima parte dell’esperienza pensata originariamente dagli artisti: un album è fatto da una sequenza di canzoni appositamente studiata, da un packaging e da un titolo, per goderla a pieno dovremmo, probabilmente, rinunciare alla comodità in cambio della qualità. D’altronde, se scaricaste un libro sul vostro Kindle e scopriste che qualcuno ha rimosso alcune parole, voi come la prendereste?

Se siete interessati ad approfondire l’argomento, qui sotto trovate un ottimo documentario sul tema.