Soli vent’anni fa sulla carta, ma per i fruitori di musica l’arco temporale che va dal 1997 ad oggi è un’era geologica. Era un mondo senza Spotify e YouTube. A dirla tutta era praticamente un mondo senza internet. La musica in formato digitale era una roba futuristica e reperirne illegalmente era un’impresa titanica anche per i nerd più allenati. Ci sarebbero voluti altri due anni perché Napster inaugurasse il file sharing e la diffusione del formato mp3, ma con tempi di download biblici – senza considerare il fatto che la connessione saltava ogni volta che tua madre alzava la maledetta cornetta del telefono. E così VHS e musicassette tenevano botta, essendo ancora il metodo più popolare ed economico per l’ascolto così come per le duplicazioni casalinghe, che si potevano personalizzare scarabocchiandone a piacimento il dorso. I supporti di nuova generazione come CD e DVD avevano già fatto il loro ingresso sul mercato, i lettori erano aggeggi parecchio costosi, ma di lì a qualche anno avrebbero mandato i nastri in soffitta, giusto il tempo di includere i masterizzatori in ogni PC ovviando così al problema della riproducibilità a basso costo. Nel frattempo MTV approdava in Italia, con un palinsesto che ricalcava in tutto e per tutto quello dell’edizione europea (sì, un vero canale televisivo dedicato alla musica, esente da intermezzi quali Jersey Shore e 16 anni e incinta). Nel Regno Unito Tony Blair veniva eletto primo ministro dopo 18 anni di governi tory ma Oltremanica già da un pezzo era nato un fenomeno forse ancora più infestante dei conservatori in Parlamento, ossia quello delle boy band. Nel ’97 però Robbie Williams aveva già mollato il quintetto di bellocci di Manchester debuttando da solista e le teenager di tutto il mondo che appendevano in cameretta i poster dei Take That e di tutte le formazioni nate sulla loro scia lo facevano ormai con le Buffalo ai piedi – calzature così sgraziate che a confronto la silhouette delle Hogan appare armoniosa – perché in fatto di moda a dettare legge erano Geri Halliwell e colleghe, cinque tipe inglesi che irrompevano nelle classifiche di tutto il mondo al grido blandamente post femminista di Girl Power!.
Tra colossali esperimenti pop e progetti nati all’ombra dell’uscita di dischi memorabili – mi limito a citare Ok Computer senza finire impantanata ad elencare tutti gli imprescindibili datati 1997 – questo è un anno che ha visto nascere molte storie, non sempre nel migliore dei modi, alcune delle quali si riveleranno però feconde e longeve. Sono molti gli artisti che proprio nel ’97 fecero il loro ingresso sulle scene, alcuni iniziando da quelle locali, altri invece partendo col botto, alcuni a marcare tendenze già in atto, altri a rimescolare le carte in gioco.
Spice Girls – Spice
Sul mercato europeo sul finire del ’96, nel febbraio del ’97 arriva la consacrazione della Spicemania con l’uscita del debut negli Stati Uniti via EMI. Evoluzione in chiave femminile dei progetti fino ad allora messi a punto dalle major su squadre di maschietti, anche quella delle Spice Girls fu una manovra concepita per far presa sulle ragazzine di tutto il globo, ma tra i due fenomeni voleva esserci uno scarto: cinque ragazze dalle fattezze fisiche “reali”, ossia gradevoli ma non strafighe, ognuna con un nickname a condensarne personalità e ambizioni (Sporty, Scary, Baby e via dicendo), sfacciate ed energiche portavoce di una qualche solidarietà femminile ridotta all’osso nelle liriche del loro primo singolo, “if you wanna be my lover you gotta get with my friends”. Peccato che mentre saranno impegnate a cantare di indipendenza delle donne e altre menate simili Victoria Adams aka Posh Spice si imbatterà in un moderno principe azzurro e diventerà la signora Beckham, sostanzialmente riportando la questione al punto di partenza, quello della sempiterna Cenerentola (con le zeppe da cubista al posto delle scarpette di cristallo).
Travis – Good Feeling
Manovre commerciali a parte, cosa accadeva in UK? Si dice che il 1997 fu l’anno della morte del Britpop, ma qualcuno deve averlo ucciso prematuramente per poi pentirsene e farlo risorgere lo stesso anno, nelle vesti di Richard Ashcroft che per strada prendeva a spallate la gente sulle note di Bittersweet Symphony e diceva addio allo shoegaze degli esordi pubblicando Urban Hymns. In questo contesto di precoce e improprio revival che avrebbero chiamato post-britpop si affacciavano sulle scene i Travis, che con Good Feeling mixavano le possibilità di motivetti pop, energia sixties e songwriting agrodolce. A partire da Beatles e The Waterboys fino alle esperienze che nel mentre portavano avanti i conterranei Teenage Fanclub, l’esordio della band di Glasgow nasceva sulla falsariga della migliore cultura pop anglosassone, ma l’indecisione tra decadenza grunge e americanismi easy fece di questo esordio un album poco riuscito, e già nel successivo The Man Who del 1999 i Travis avrebbero optato per la seconda strada.
Mogwai – Mogwai Young Team
Sempre a Glasgow ma con qualche EP alle spalle, quello dei Mogwai fu invece un esordio in long playing con le idee chiare, tra le cui tracce, nonostante un’impostazione ancora legata alla melodia, germogliava già quel post-rock strumentale che partendo da esperienze anni ’90 di matrice americana come Slint e Tortoise negli anni successivi si sarebbe tradotto nelle reiterazioni ossessive e sinistre di composizioni per lo più strumentali, fitte texture di chitarre abrasive e distorsioni più eloquenti ed emozionali di qualsiasi testo. Mogwai Young Team uscì per l’indipendente scozzese Chemikal Underground (la stessa label che l’anno precedente aveva pubblicato l’esordio degli Arab Strap) con un booklet in cui i membri della band compaiono sotto pseudonimi (quello di Stuart Braithwaite è pLasmatroN, lo stesso che usa oggi per il suo profilo Instagram).
Godspeed You! Black Emperor – F♯ A♯ ∞
Sempre sul fronte del post-rock, dall’altra parte dell’Atlantico la storia prendeva altre pieghe. In quel di Montreal, quello dei GY!BE con Constellation Records è un sodalizio che iniziava allora e che dopo cinque release non si è ancora interrotto. F♯ A♯ ∞ (da pronunciare “F-sharp, A-sharp, Infinity“) è considerato l’esordio vero e proprio nonostante un primo lavoro autoprodotto tre anni prima, registrato su cassetta e a tiratura limitata e intitolato All Lights Fucked On The Holy Amp Drooling. Anche quello del collettivo canadese fu un debutto che centrò il bersaglio al primo colpo: nove elementi in totale, tra cui accordion, violoncello, clavicembalo e cornamusa, a imbastire un’ora di sperimentale impasto disturbante, diviso in sole tre tracce, l’ultima delle quali occupava quasi metà del disco. Se ad accomunarli ai Mogwai c’era l’attitudine di stampo prog a gestire lunghe composizioni, mentre negli scozzesi questa si miscelava con ambientazioni amniotiche shoegaze, che in qualche modo ne arginavano gli eccessi, i GY!BE svelavano sin dall’inizio la propria ambizione alla solennità di sinfonie adulterate, dalle architetture sonore illogiche e strabordanti che sfociavano nell’anarchia.
Daft Punk – Homework
Tutt’altra musica in Francia, ma altrettanto significativa nel delineare le sorti future di tendenze ancora tutte in divenire, anche grazie alla risonanza che il debut in questione ebbe a livello internazionale. “The sound of tomorrow and the music of today“, prometteva una voce robotica dall’accento francese in WDPK 83.7 FM e Homework se la cavò magistralmente nell’aggiornare la proposta elettro degli anni ’80, morbida collisione dell’esperienza kraut rock col funk e con l’eurodance. Un mix inedito reso raffinato da un dosaggio minimal, che generava un nuovo modo di intendere il danzereccio, sperimentale, ma costellato di motivetti a presa rapida, declinazione dell’acid diametralmente opposta al big beat dei Chemical Brothers che nello stesso anno pubblicavano Dig Your Own Hole. Il primo album dei Daft Punk apriva la strada alla french house ed era già storia, fosse anche solo per l’iconico videoclip con gli scheletrini che ballano girato da Michel Gondry per Around The World.
Elisa – Pipes & Flowers
E in Italia? Dicevamo che finalmente i videoclip si potevano guardare anche senza l’abbonamento a TELE+ per beccare MTV UK, ché la pay tv era ancora una roba da ricchi veri. Era estate e su MTV Italia in rotazione c’era quello di Sleeping In Your Hand, in cui il volto di una fanciulla che cantava in inglese con timbro ammaliante si alternava a immagini oniriche che, seppure meno torbida e incazzata, la facevano sembrare l’ultima affiliata al riot grrrl sulla scia di Tori Amos e PJ Harvey. La produzione del debutto discografico dell’italianissima Elisa Toffoli sembra frutto di mani anglofone come le liriche dei brani che lo compongono, e invece Pipes & Flowers nasce in casa Sugar, con Caterina Caselli a dosare melodia e grinta del timbro dell’appena ventenne friulana.
Niccolò Fabi – Il Giardiniere
Dalle parti di Sanremo nel ’97 il centro del podio se lo aggiudicarono i Fiumi di Parole dei Jalisse, meteora tra le più meteore della storia della canzonetta italiana. Nella sezione “Nuove Proposte” trionfava invece un biondino riccioluto, con un brano dedicato proprio ai suoi capelli. Prodotto da Riccardo Sinigallia, uno che da oltre vent’anni dimostra la propria lungimiranza in fatto di cantautorato nostrano (l’ultimo nella lista delle sue scommesse vinte è Francesco Motta), dopo il festival Niccolò Fabi esordiva su Virgin con Il Giardiniere, che è anche il titolo della prima traccia di un album che pur nella sua deliberata orecchiabilità in linea con lo stile sanremese rivelava già qualche venatura di ironica malinconia su cui si sarebbe attestato il Fabi dei vent’anni successivi, in un continuo crescendo di maturità compositiva, libertà espressive e grazia lirica.
Virginiana Miller – Gelaterie Sconsacrate
Non solo Sanremo. Nel contesto di una scena alternative fervente i livornesi (attivi in realtà sin dal 1990) esordirono con un ottimo biglietto da visita per Baracca e Burattini, label indipendente e attivissima nel perlustrare il sottobosco musicale della Penisola, sotto la cui egida erano già passati anche i C.S.I. – che pubblicavano Tabula Rasa Elettrificata proprio nel ’97, mentre Giorgio Canali partecipava attivamente anche alla messa a punto in studio dell’esordio dei Virginiana Miller. Ristampato nel 2012, Gelaterie Sconsacrate usciva quell’anno deformando sfacciatamente la musica d’autore nostrana a suon di rock anglofilo, in un momento storico in cui le contaminazioni con esperienze underground di diversa collocazione geografica non erano ancora quel flusso che oggi è agevolato – per non dire inconsapevolmente indotto – dal libero accesso a sconfinati contenitori come YouTube. A personalizzare la formula c’era poi l’ironia scanzonata e dolciastra delle liriche, per un risultato stravagante quanto evocativo, che negli arrangiamenti di brani come Tutti al Mare e L’uomo di Paglia lasciava già intravedere tutte le potenzialità del progetto.
Subsonica – Subsonica
Se il debutto eponimo della band di Samuel fosse uscito nel 2017 qualcuno avrebbe utilizzato considerazioni del tipo “Subsonica è l’anello di congiunzione tra l’underground e il mainstream”, ma chiunque avrebbe fatto la figura del pirla a parlare così nel ’97 a Torino. Al di là della discrepanza lessicale la riflessione sarebbe stata però corretta: figli della scena alternative torinese, i Subsonica esordirono per quella che forse è l’etichetta simbolo della musica indipendente italiana del periodo, Mescal, imboccando però la strada di un pop sapiente che li proiettava già verso il successo commerciale. Lo stesso anno i Subsonica furono tra i protagonisti di una specie di proto-MTV Day italico, il 20 settembre a Reggio Emilia, insieme a 99 Posse, Afterhours, Blindosbarra, Sottotono e Meathead, su un palco all’esterno dell’area in cui nel mentre si esibivano gli U2 in tour con Pop.
of Montreal – Cherry Peel
Torniamo in America, per la precisione ad Athens, in Georgia. Mentre Bill Berry lasciava i R.E.M. , gli of Montreal debuttavano via Bar/None Records in una veste molto diversa rispetto a quella baroque pop con cui li conosciamo oggi. Come i Neutral Milk Hotel e molte altre band nate negli anni ’90, il progetto vede la luce tra le fila del collettivo di musicisti americani noto come The Elephant 6 Recording Company (di cui peraltro Jeff Mangum è uno dei fondatori). L’esordio di Kevin Barnes e soci si muove essenzialmente tra le note di un country folk stralunato e un morbido surf rock à la Beach Boys, ma non solo: è interessante notare come anche le melodie degli artisti più distanti dal circuito mainstream dimostravano un debito nei confronti di quello che viene identificato – in un’accezione per lo più dispregiativa – come “Brill Building Pop“, dal nome dell’edificio di Manhattan famoso per ospitare gli uffici dell’industria americana che negli anni ’50 sfornava i più noti motivetti della nazione. Insomma, in Italia abbiamo Sanremo, ma a quanto pare non siamo gli unici a dover gestire una tara compositiva.
Deerhoof – The Man, The King, The Girl
Lo scenario è quello della mitologica San Francisco e l’eccentricità del debutto dei Deerhoof sembra esserne la naturale traduzione in musica. Quella nata alcuni anni prima da Rob Fisk e Greg Saunier come un duo basso-batteria all’insegna dell’improvvisazione è una compagine da sempre senza leader e devota totalmente al DIY. L’estemporaneità è un connotato che permane anche nelle incisioni addomesticate che finirono per comporre il loro esordio, uscito per la radicale Kill Rock Stars, tra peripezie avant garde, sonorità sghembe e un’estetica surrealista. Nel frattempo ai due si era aggiunta Satomi Matsuzaki, con voce e stridenti giocattolini colorati, che creavano veri e propri conflitti tra pop e noise, in un rifiuto melodico che rendeva i brani difficilmente accessibili. Fu un inizio e in un certo senso anche una fine, perché da allora ad oggi ogni album dei Deerhoof sarebbe stato stato un cambio di rotta rispetto al precedente.
Third Eye Blind – Third Eye Blind
Siamo sempre a Frisco, dove il self-titled con cui esordiva la band allora capitanata dal duo Jenkins-Cadogan – rispettivamente alle liriche e alle musiche – si muoveva tra power pop e post grunge, all’ombra di Elektra Records, gemellata con 4AD, nel periodo in cui al timone c’era Bob Krasnow e tra i compagni di etichetta Metallica, The Cars e Stereolab. L’album ebbe persino un certo successo commerciale, trascinato da singoli radiofonicissimi come Semi-charmed life. Il sound ammiccava a quello dei conterranei Counting Crows ed è su questa scia che si sarebbe poi evoluto il metal funkeggiante degli Sugar Ray. Un debutto promettente che arrivava dopo un lungo periodo di tentativi a registrare demo, ma appena due anni dopo Kevin Cadogan sarebbe stato espulso dal gruppo e il seguito della storia dei Third Eye Blind sarebbe andata avanti a ritmo discontinuo, tra tribunali e release che non avrebbero eguagliato il successo di quest’album.
Grandaddy – Under The Western Freeway
Ma la California non era solo il fervore della West Coast. L’altra faccia era quella della provincia, dove il rock veniva declinato in altre forme, decisamente più lisergiche e inevitabilmente in chiave lo-fi. Come quella dei Pavement, la formula dei giovanissimi Grandaddy sapeva di desiderio di evasione e dopo una serie di incisioni autoprodotte si concretizzava in un full-length che usciva per Will Records. La band di Modesto inaugurava la propria carriera con un pregevole album a base di fuzz, sintetizzatori analogici e alt country adulterato. L’anno successivo Jason Lytle e soci avrebbero conquistato il mercato europeo, anche grazie a un’esibizione al Reading Festival, e attirato l’attenzione dell’inglese V2 Records (la cui primissima uscita era stato il debut degli Stereophonics nel ’96) con cui nel 2000 avrebbero pubblicato quel profetico concept album sul rapporto tra società e tecnologia che fu The Sophtware Slump.
Missy Elliott – Supa Dupa Fly
E poi c’era Melissa Arnette Elliott, che non era nuova dalle parti della scena r’n’b/hip-hop, ma con Supa Dupa Fly debuttava finalmente da solista, nello stesso anno in cui Life After Death – secondo disco a firma The Notorius B.I.G. – usciva postumo. In cabina di regia c’era Timbaland, amico di vecchia data di Missy “Misdemeanor” e militante con lei nel collettivo Swing Mob, naufragato un paio di anni prima. Uscito per The Goldmind / Elektra, l’album debuttava al numero 3 della classifica Billboards 200, un traguardo mai raggiunto fino ad allora da una rapper donna. Le novità non riguardavano però solo l’aspetto commerciale: la versatilità di Missy tra mcing e cantato e l’approccio fresco di Timbaland alle componenti electro accorciavano la distanza tra il movimento hip-hop e i territori pop, e in questo senso avrebbero influenzato le produzioni di tutto il decennio successivo, mantenendo però intatto il cameratismo che da sempre contraddistingue il genere (moltissimi i featuring nel disco, tra cui Busta Rhymes e Queen Latifah).
Matmos – Matmos
Sono americani, ma la carriera di M. C. Schmidt e Drew Daniel, iniziata con l’eponimo album datato 1997, avrebbe poi avuto un seguito a livello internazionale in buona parte grazie alle collaborazioni con una celebre islandese che risponde al nome di Björk, a partire dall’anno successivo (dal remix di Alarm Call ai contributi in Vespertine e Medúlla). Le peripezie elettroniche di Matmos ruotavano intorno all’utilizzo dei campionamenti più inusuali, da rumori quotidiani a lavorii organici il più noto dei quali è il sample dell’attività cerebrale di un gambero in Verber: amplified synapse. Il risultato fu un ostico elettro pop dalle strutture melodiche deformate dalle tentazioni sperimentali della musica concreta. Era solo l’inizio dell’attività di cacciatori di suoni che il duo porta avanti tutt’oggi, tra i lavori a firma Matmos e le molteplici incursioni nelle produzioni altrui con cui avrebbero contaminato il pop rock degli ultimi due decenni.
Sigur Rós – Von
A proposito di Islanda, il 1997 fu anche l’anno del debutto della band di Jónsi. Alla prima pubblicazione sotto l’islandese Smekkleysa sarebbe seguita una reissue nel 2004 via One Little Indian, quando i Sigur Rós sarebbero già diventati una band di culto di cui riscoprire ogni nota prodotta. Von dimostra come sin dagli albori la loro missione sia stata quella di descrivere in musica le idiosincrasie della terra natia. Non che in quanto a esperimenti arditi i Nostri avrebbero poi abdicato, ma il loro esordio fu angoscioso e col fascino caustico e caotico che solo i lavori acerbi osano sfoggiare, un salto nel vuoto dei rumorismi e della composizione fuori da ogni logica comprensibile. Tra costrutti ambient sfiancanti e prolissi e melodie squarciate da voci ultraterrene, i 70 minuti del disco concedevano ben poche tregue all’ascoltatore. I Sigur Rós sarebbero usciti dai confini nazionali solo un paio di anni dopo affinando e ridimensionando le ambizioni in Agaetis Byrjun.
Koop – Sons of Koop
Un duo che suona come un’orchestra non era ancora cosa frequente vent’anni fa, ed era così che si presentavano gli svedesi Koop, con la frase iniziale del singolo Glömd a scomodare Prélude à l’après-midi d’un faune di Claude Debussy, condito di sussurri femminei a generarne un perturbante impasto trip hop à la Massive Attack. Il primo lavoro di Oscar Simonsson and Magnus Zingmark usciva con la connazionale Superstudio Grå. Incorporando anche elementi esotici e swinganti, negli anni successivi le loro miscele sintetiche sarebbero rimaste altrettanto dense ma decisamente più easy listening, coi vocals malinconici di Ane Brun o quelli glitterati di Yukimi Nagano, e più di una delle loro composizioni ovattate e futuristiche sarebbe finita a far da colonna sonora a noti videogames.
The Hives – Barely Legal
Decisamente tutta un’altra Svezia quella garage rock revival della band di tale Randy Fitzsimmons, che sarebbe sparito dalla storia del progetto The Hives pochi anni dopo averlo messo a punto personalmente. Dopo un EP uscito l’anno precedente per la svedese Burning Heart, per Barely Legal la formazione poteva già godere anche del supporto di Epitaph e penetrare così anche il mercato americano. Alla schietta immediatezza delle ritmiche punk si abbinava un’ironia che voleva essere colta – il booklet riportava presunte reviews del disco che in realtà erano recensioni di “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley (d’altronde tre anni dopo avrebbero coinvolto anche Giulio Cesare col gioco di parole che dà il titolo al sophomore, Veni Vidi Vicious). In nuce l’estetica del quintetto è un po’ quella che avrebbe poi caratterizzato gli Strokes, alla cui attitudine glam The Hives si sarebbero poi allineati, ma la sostanza di questo debutto era ancora ruvido, urgente e valido hardcore.
Mew – A Triumph for Man
Dall’altra parte del Mar Baltico tra le novità di quell’anno non c’era solo l’eurodance esagerata degli Aqua. Un inizio in sordina e un lavoro inizialmente sottovalutato quello dell’allora numerosa formazione – anche se fortunatamente anche di A Triumph For Man sarebbe poi arrivata una ristampa, nel 2006, con molti contenuti extra – ma in realtà fu tra i più pregevoli dell’anno ed anche probabilmente dell’intera discografia dei Mew. Il suo sostrato melodico e immediato era continuamente disturbato, tra le interferenze dei delay tipicamente shoegaze, i ritmi sghembi dalle movenze sadcore e la notevole estensione vocale di Jonas Bjerre a ribaltare di volta in volta il mood. Con le sue chitarre riverberate al centro della scena, l’esordio dei danesi ha condotto a molto del dream pop internazionale degli anni seguenti.
Savage Garden – Savage Garden
Non sono molti i meriti da riconoscere al melenso e poppissimo debutto del duo australiano di bellocci che rispondevano al nome di Darren Hayes e Daniel Jones – un progetto che durò il tempo di due album nonostante un tour mondiale di mezzo. Anzi, forse ce n’è solo uno: quello di averci fornito la colonna sonora per limonare per tutta l’estate.