La #10yearschallenge spopola sui social facendoci sentire tutti irrimediabilmente vecchi. Quindi ecco qui la nostra: celebriamo 10 dischi (sì, ci saranno ovviamente degli esclusi illustri) che compiono 10 anni.

Animal Collective – Merriweather Post Pavillion

Pop sghembo e sgangherato, psichedelia drogata, litanie da stato-di-trans, melodie accessibili ed ammalianti con un costante non-sense di fondo. Merriweather Post Pavillion ha (avuto) molti meriti. Oltre ad avere una delle copertine più emblematiche degli anni zero, ha consacrato gli Animal Collective come gruppo di punta della scena underground mondiale. A livello personale, ma oserei dire generazionale, ha segnato un senso di appartenenza con un certo tipo di musica (“Ma davvero ti piace ‘sta roba?!” “Sì.”) e con tutti coloro che questa passione la condividevano, nei meandri dell’internet. Per ultimo e più importante, con questo lavoro gli Animal Collective hanno buttato nel calderone del pop mille e più influenze, uscendone però con un prodotto totalmente nuovo, scopertosi poi precursore per tantissima musica venuta negli anni seguenti. MPP è un denso gioco infantile eppur maturo, concepito con (in)coscienza, con la naïveté di chi vuole fuggire dalla triste realtà creandone una più confortevole, fatta di buoni sentimenti e amicizia. È un album cardine, immersivo, imprescindibile, probabilmente unico nel suo genere e, possiamo dirlo, perfetto. – Simone Zagari

The xx – The xx

È un gioco strano quello di parlare di xx a posteriori, avendo bene in mente sia chi è oggi Jamie xx sia i passi successivi di Coexist e I See You. È un gioco ad eliminare e involvere: eliminare la mole di sample di I See You e le rifiniture di Coexist, per arrivare a un disco che ha toccato le corde di tutti con un set-up minimale e limitato, riuscendo a parlare d’amore e relazioni in modo così intimo e universale da risultare più brutale che mai. Potrei soffermarmi sui beat iconici di Crystalized, sul perfetto incastro di voci di Romy e Oliver in Islands o su quello xilofono sognante di VCR, ma forse la cosa davvero importante è che xx ci ha insegnato come suonano l’inizio e la fine di una storia, come suonano la malinconia e l’inadeguatezza che ti prendono solo quando, da teenager, pensi che il peso del mondo sia tutto sulle tue spalle. xx è stato e, dopo dieci anni, è ancora con noi, in tutte le playlist, per aiutarci a combattere l’ansia, a superare gli addii, perfino a fare l’amore. – Ilaria Procopio

Girls – Album

Ogni storia ha un suo eroe e questa band di San Francisco sembrava averne trovato uno davvero duro e allo stesso tempo fragile. Biondissimo, spalle strette, un passato sporco ed educazione religiosa: materiale da romanzo. Album dei Girls è un disco rock, di quelli senza tempo: blues, punte di shoegaze, armonie e chitarre sixties facilmente afferrabili. L’universalità dell’opera è poi rafforzata da testi che narrano la fine delle cose, in particolare dell’amore. Il disco trasuda un senso di incompletezza, una visione d’insieme estremamente cupa, smorzata sì dall’ironia ma allo stesso tempo acuita dalla voce di Owens, camaleontico frontman che fa proprie le qualità dei maestri di mezzo secolo fa, rielaborandole in chiave totalmente personale. Un tentativo, il suo, di nascondere o quantomeno alleggerire una sofferenza lacerante, mentre cerca di afferrare l’ultima tessera del puzzle. – Giuseppe Mangiameli

Fuck Buttons – Tarot Sport

Quando, nel 2012, Olympians e Surf Solar furono usate come colonna sonora della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici (grazie al direttore musicale, il signor Karl Hyde degli Underworld), rimasi stupito e divertito tanto quanto i Fuck Buttons stessi. Nelle due tracce, e ovviamente in Tarot Sport tutto, il duo inglese è riuscito ad imprigionare quella tendenza viscerale che spinge l’uomo verso l’alto, verso il superamento dei paradigmi terrestri che spesso divengono gabbia, ma mai in senso fisico né superomistico, bensì a livello mentale, interiore e passionale. Il rumore, sublime e multiforme veicolo per questo viaggio ignoto, si declina in wall of sound luminosissimi e rincorse soniche mozzafiato, mentre l’inconscio si risveglia e viene sorpreso ad alzare il volume, già settato su decibel folli, nonostante la sordità imminente. Etereo, fisico, di cuore. – Simone Zagari

Phoenix – Wolfgang Amadeus Phoenix

Lisztomania, indimenticabile capolavoro dell’indie pop, apre un disco che, già al momento dell’uscita, si presentava come un autentico gioiellino: Wolfgang Amadeus Phoenix, quarto album e apice mai superato della carriera dei Phoenix. Al di là dell’emblematico anthem, comunque, è praticamente impossibile selezionare i singoli e dividerli dalle tracce riempitive, che di fatto non esistono: è tutto uno scorrere di synth, chitarre catchy e batterie in levare, elementi presi dalla tradizione dell’elettronica francese e fatti rivivere nel presente dell’epoca in maniera perfetta. 1901, Love Like a Sunset, Rome e tutte le altre, bellissime oggi e ieri, sanno tuttora regalare un crescendo di romanticismo e ricordi dolceamari. Dieci anni dopo, Wolfgang Amadeus Phoenix è ancora il disco di chi si ritrova ad analizzare il presente chiedendosi Do you remember when 21 years was old?, memori di un’epoca in cui si guardava ai sogni quasi fossero un destino lontano, ma non irraggiungibile. Giuseppe Mangiameli

Fever Ray – Fever Ray

Pop elettronico oscuro, ribellioni contro la società, un immaginario visivo profondamente misterioso, a tratti esoterico: questi sono gli elementi fondanti dei (compianti, ahinoi) Knife e, ovviamente, di Fever Ray, progetto solista di Karin. Non faceva eccezione il debutto eponimo, baluardo di sonorità gotico-digitali fatte di synth avvolgenti, percussioni morbide e suadenti, voci pitchate che sembrano provenire da un altro mondo, un sound design curatissimo. Fever Ray è una fiaba dei fratelli Grimm, ma di quelle che conservano la cruenta originalità, è una perla nera proveniente da chissà dove, ancora preziosissima. – Simone Zagari

Grizzly Bear – Veckatimest

Al primo ascolto, il genere raffinato dei Grizzly Bear sembra rientrare nel canone indie pop che tanto ha segnato la metà e la fine degli anni 2000, ma c’è una certa raffinatezza nella cura del dettaglio che si rivela ascolto dopo ascolto, e che in Veckatimest diventa vera e propria firma della band. Veckatimest è un album che si presenta in punta di piedi, senza mai urlare, ma che dischiude spiragli fisici, evocando spazi aperti grazie agli arrangiamenti dinamici di voci e strumenti e alla produzione cristallina del bassista Chris Taylor. Tra il passo leggero di Southern Point, quello intimo di All We Ask e Foreground e la danze più serrate di While You Wait for the Others e Cheerleader, l’album trova anche il tempo per momenti più pop ma sempre, immancabilmente, Grizzly Bear. Two Weeks poi la conosciamo tutti, ma giuro che è ancora più bella se ascoltata col resto del disco. Che siano dieci o vent’anni, un album dei Grizzly Bear invecchia come il buon vino: è impossibile non scoprirci qualcosa di nuovo ad ogni ascolto. – Claudia Viggiano

Japandroids – Post-Nothing

Negli anni in cui fioriscono i ragionamenti di “post-“tutto, i Japandroids debuttano con Post-Nothing. E se già le premesse sono geniali, ancor più d’impatto è la genuinità con cui il duo di Vancouver incarna lo spirito di una generazione abbandonata a se stessa. Il garage casinista, quello del pogo sudatissimo sottopalco, degli anthem gridati a squarciagola, diventa l’arma di rivolta contro l’insicurezza dell’età adulta e un futuro vacillante. Post-Nothing è l’ultima scheggia di ribellione contro lo scorrere del tempo, l’ultimo guizzo di gioventù fatto di amori fugaci, divertimento sfrenato e assenza di preoccupazioni e responsabilità. We used to dream/Now we worry about dying/I don’t want to worry about dying. Se il solo leggere questa frase vi scombussola proprio come fa a me, beh, schiacciate play e fate passare la paura, almeno per 35 minuti. – Simone Zagari

St. Vincent – Actor

Anche con il senno di poi, nel 2009 sarebbe stato forse impossibile prevedere la traiettoria presa dalla carriera di Annie Clark negli ultimi anni. L’aumento crescente di pubblico, le performance a sfilate di moda, le pagine dei tabloid (indie e non) per le frequentazioni con Carrie Brownstein, Kristen Stewart e Cara Delevingne e il successo esponenziale degli ultimi due album: mica male per una chitarrista di Tulsa che dieci anni fa pubblicava un album ispirato ai vecchi cartoni Disney, barocco e pieno di archi. Arrivato due anni dopo il debutto Marry Me, Actor rivela una St. Vincent in divenire, lontana dai classiconi à la Cheerleader che sarebbero arrivati di lì a poco, ma in pieno controllo di un art pop sbarazzino (Laughing With A Mouth Of Blood, Save Me From What I Want, The Party) che a tratti si diverte a partire per la tangente, nei soliti deliri chitarristici che abbiamo imparato ad amare (The Neighbors, Marrow). “I think I love you, I think I’m mad” canta Annie in Actor Out Of Work, forse la frase che descrive al meglio le due anime di un album in apparenza semplice da decifrare, ma che pone già le basi della St. Vincent che sarà, almeno musicalmente. Non è cambiata così tanto, alla fine, e se lo diceva da sola già 10 anni fa: “I’m just the same but brand new“. – Sebastiano Orgnacco

The Antlers – Hospice

Hospice è un disco privato, è l’esternazione di una sofferenza troppo grande per essere tenuta dentro, è il debutto sommessamente folgorante degli Antlers, è la natura umana messa lì sul tavolo, in bella vista, in tutta la sua caducità. Cancro, aborto, malattia mentale, morte vengono trattati con una delicatezza rara, tra bisbigli e pacate melodie egregiamente inficiate da rumore e distorsioni di fondo permanenti, quasi a ricordare che il male è sempre dietro l’angolo. Ciò che più lacera, però, sono quelle esplosioni inaspettate, concretizzazioni musicali di un uomo in preda ad uno scatto d’ira: sono l’ultima e futile ribellione di fronte all’inconcepibilità di una stanza d’ospizio che ospita un proprio caro. Era tanto tempo che non riascoltavo Hospice e ora non riesco a liberarmene; è ancora attualissimo, universale, proprio come la sofferenza umana. – Simone Zagari