Oggi vi aggiorniamo con qualche recensione breve sugli ultimi album interessanti usciti recentemente.
Daughters – You Won’t Get What You Want
La musica come mezzo per raccontare ed esorcizzare l’angoscia esistenziale esiste da sempre, ma è raro che l’esperienza dell’ascoltatore si trasformi anch’essa in angoscia nel processo. You Won’t Get What You Want fa proprio questo: i Daughters, dopo un’assenza di otto anni, distruggono la quarta parete e trascinano il pubblico in un nulla sinestetico in cui i muri di suono sono maestosi e insormontabili, le percussioni gravi e nefaste, le chitarre perennemente stridenti. Con un’atmosfera più vicina ad un film horror che ad un semplice disco bidimensionale, You Won’t Get What You Want abbraccia hardcore, industrial e un cattivo e ossessionante noise in cui la voce di Alexis Marshall sembra quella di un crooner con solo fantasmi da intrattenere, evocando Swans, Protomartyr, Have a Nice Life ma in una versione esasperata e ancora più oscura. La scrittura è sospesa fuori dal tempo nonostante gli scenari siano vividi e disperati: brani come Ocean Song sciolgono nodi narrativi che percorrono l’intero disco, contribuendo alla coesione strutturale di quello che potrebbe essere un equivalente musicale di un romanzo esistenzialista. You Won’t Get What You Want è un album totale, che invade, e da cui si esce con la voglia di prendere a pugni qual(siasi)cosa.
Voto: 8.3 – Claudia Viggiano
Rosalía – El Mal Querer
El Mal Querer, il secondo disco di Rosalía rilasciato ad un solo anno di distanza dal debutto, è la conferma della popolarità attorno all’artista catalana (mettete in lista anche una futura collaborazione con Pharrell e persino un ruolo nel nuovo film di Almodovar). Della stella spagnola si decantano, e colpiscono subito, la capacità di coinvolgere il flamenco classico nei moderni pop e rap dalle danzanti basse frequenze; il tutto è poi prodotto in maniera certosina sotto l’ala di Universal, e questo fa sì che l’identità regionale catalana possa trovare il proprio spazio nei primi posti delle classifiche di tutto il mondo. Quello che viene generalizzato come latin pop, infatti, sta pian piano trovando l’approvazione di molti (un altro esempio: Empress Of con il suo Us), riuscendo finalmente ad abbattere le forti barriere linguistiche che da sempre son state un problema per artisti non anglofoni. Pop, rap, R&B e una forte appartenenza territoriale alla base fanno di Rosalía uno dei progetti più interessanti, originali e godibili di questo 2018. Chissà se resisterà all’hype.
Voto 7.6 – Claudio Carboni
Vince Staples – FM!
In un periodo storico in cui il trono del rap è conteso dai soliti Kanye e Kendrick, e con nuovi rapper che spuntano random dietro ogni angolo, la figura di Vince Staples rischia di venire ingiustamente sottovalutata, dimenticando forse la potenza della sua scrittura e la lucidità della sua visione. FM!, terzo album in studio, non abbassa la media generale, anzi: il filo conduttore della stazione radio, l’omaggio ai Green Day nella copertina, l’apparenza sgargiante che impacchetta il tutto non traggano in inganno. Feels Like Summer e Relay sono brucianti istantanee sulla criminalità di Long Beach, FUN! e Tweakin’ riflettono sugli amici che hanno intrapreso la vita di strada e non ce l’hanno fatta. FM! contiene però anche i ritornelli più catchy mai scritti da Vince, contiene nuovi brani con Earl Sweatshirt e Tyga e include anche un gioco radiofonico, tutto in appena 22 minuti. Continuare a sottovalutare Vince Staples inizia ad essere impossibile: FM! è l’ennesimo gioiellino da mandare giù tutto d’un fiato, un disco solo in apparenza estivo, in realtà rigido come il più duro degli inverni.
Voto: 7.9 – Sebastiano Orgnacco
Muse – Simulation Theory
Scrivo questa recensione nella giornata mondiale della gentilezza. Non penso sia un caso, no, perché ascoltare e scrivere del nuovo album dei Muse è una gentilezza gratuita che vi faccio e che spero il karma ricambierà in qualche modo. Avevo anche letto in giro che questo Simulation Theory “non è poi così male, almeno non come i precedenti”. I precedenti non li ho ascoltati, ma ora me li immagino come l’inferno in Terra. Simulation Theory è ciò che ti aspetti: un arena-rock pomposissimo e plasticoso, con tutti i riffoni di chitarra che fanno fare le corna con le mani ai cinquantenni finti-giovani fan di DJ Ringo, quella voce straziante sempre oltre il limite del sopportabile, gli intermezzi bro-step (nel 2018); talvolta ci sono anche delle chitarre acustiche e un pezzo pare un salsa e merengue da ballare in Riviera. E poi chiaramente c’è tutta quell’immancabile grandeur di synth e cori sacrali che sembra arrivato il giorno del giudizio, ma purtroppo non è così e l’ascolto prosegue. La novità? È tutto colato in una nuova pasta che da lontan(issim)o potrebbe sembrare sci-fi, ma poi ti avvicini e capisci che è la solita, cara, vecchia, merda. Riferimenti 80s senescenti, maneggiati male e rimessi in musica ancora peggio. Generalmente non è corretto giudicare un lavoro dalla copertina, ma qui va benissimo (considerando pure la somiglianza con quella della DPG). Ah, se dovete fare ammenda di qualche peccato mortale, su Spotify trovate l’edizione SUPER DELUXE, che suona come una minaccia, e in fondo mi piace immaginare che lo sia. Vi prego, basta.
Voto: 3 – Simone Zagari
St. Vincent – MassEducation
Un anno fa usciva Masseduction, 50% estetica e 50% manifesto dei nostri tempi, in cui una St. Vincent più irriverente che mai si divertiva a farci ballare su quanto fosse sempre più medicalizzata (Pills), consumistica (Masseduction) e gender-fluid (Sugarboy) la nostra vita nel 2017. Immaginate di togliere a Masseduction i synth, la drum machine, la suddetta estetica irriverente, il glam e il latex. Cosa rimane? Rimane MassEducation, ovvero la sua versione acustica, composta, educata. Un album non necessario che – come se ce ne fosse ancora bisogno – mette in risalto le potenzialità vocali extraterrestri di Annie Clark e i testi di Masseduction, che erano (ballando forse non ce ne siamo accorti) più malinconici (Hang On Me) e apocalittici (Fear The Future) che mai. Certamente un album-divertissement che farà piacere solo ai fan, ma c’è da dire che senza gli orpelli, solo piano e voce, il messaggio di St. Vincent arriva anche più forte e chiaro: che sia per un amore finito o per le dinamiche di potere del ventunesimo secolo, non siamo messi affatto bene.
Voto: 7 – Ilaria Procopio
Unknown Mortal Orchestra – IC-01 Hanoi
Scordatevi gli Unknown Mortal Orchestra soft disco di Every One Acts Crazy Nowadays e quelli zuccherosi e pop di We’re Not In Love We’re Just High. Anzi, scordatevi proprio gli UMO per come li conoscete, perchè IC-01 Hanoi è un album che ha talmente poco a che fare con il passato della band di Ruban Nielson che viene da chiedersi perché non sia stato fatto uscire sotto un altro nome. Breve – sette tracce appena – e interamente strumentale, IC-01 Hanoi è stato registrato nella capitale vietnamita durante l’estate monsonica, mentre la band stava ancora lavorando a Sex&Food. Sperimentazioni jazz, chitarre, psichedelia, alt-pop: dentro IC-01 Hanoi c’è un po’ di tutto, nel bene e nel male. Nel bene (l’assolo di sáo trúc di Hanoi 3, ma soprattutto la creepy ballad Hanoi 6), perché testimonia ancora una volta come Nielson sia una fonte inesauribile di creatività e pazzia. Nel male, perché alcuni passaggi risultano così cerebrali da portare chi ascolta alla noia, se non allo sfinimento. Un’accozzaglia confusa e solo a tratti felice.
Voto: 6.4 – Ilaria Procopio
Dead Can Dance – Dionysus
I Dead Can Dance sono redivivi, sei anni dopo, e sono in forma. Dionysus è il canto che si leva dall’Australia e si fa nuovamente portabandiera dell’originalissimo sound del duo: sempre gotico, ancestrale, ma comunque moderno e godibilissimo. Lenti battiti di pelli e percussioni tribali scandiscono il ritmo di melodie ipnotiche e arabeggianti, desertiche, che mai scaturiscono dalle corde o dai tasti di strumenti convenzionali; i loop si ripetono sino ad un piacevolissimo stato di semi-coscienza, destato solamente in parte dal ricco intreccio vocale di Perry e Gerrard. Grazie alla ricetta dei due sciamani, i morti riemergono e ricominciano a danzare nell’Africa più Nera, nell’America più meridionale, nel Messico più nascosto, nell’Asia più interna, nell’Oceania più lontana. Sono tutti raccolti intorno allo stesso fuoco, di notte, instancabili, e noi con loro. Dionysus è equilibrato, new age ma non barocco. È la colonna sonora perfetta per DJ set downtempo (The Forest è assolutamente incredibile), bevute casalinghe di vino, yoga, sesso, riti esoterici, ayahuasca.
Voto: 7.1 – Simone Zagari