Oggi vi aggiorniamo con qualche recensione breve sugli ultimi album interessanti usciti recentemente.

Ariana Grande – thank u, next

No, teste di cazzo, Ariana Grande non è musica per ragazzini/e. Basta con questi pregiudizi fondati sul nulla: cliccate play su Spotify e sentite che bel lavoro è uscito dalle sue mani (e soprattuto da quelle dei suoi produttori). In questo disco Ariana prende il meglio del meglio del pop di questo decennio che sta per arrivare al capolinea e lo re-interpreta a modo suo, grazie a quella che è la migliore voce in circolazione oggi su questo pianeta. Abbiamo quindi un po’ di Rihanna in make up (con i cori che rimandano a Cockiness (Love It)) e break up with your girlfriend, i’m bored (un bel mix dei suoni di ANTI) poi c’è Kelela in ghostin, ci sono gli acuti di FKA Twigs in in my head e i rimandi al pop più radiofonico di Charli XCX con le teenage-oriented fake smile e bloodline. Il tutto ricoperto da una glassa di ritmi che definire trap è riduttivo, forse nu-trap o nu-nu-R&B ha più senso? Fate voi, il punto è che il pop, quando non scade in banalità e paraculate di vario tipo è sempre un piacere ascoltarlo e apprezzarlo (vedi il debut album di Dua Lipa). Brava Ariana, il nuovo decennio pop sarà tuo. Punto.

Voto: 7.5 – Andrea Pelizzardi

Weezer – Weezer (Black Album)

Ragazzi, mi sa che abbiamo rotto i Weezer. Avevamo creduto nella loro resurrezione con il White Album del 2016, vero? Consideratelo un fuoco di paglia allora, perché tra Pacific Daydream e questo Black Album la band tocca un punto così basso che a confronto Make Believe e Ratitude sembrano Pinkerton. Ma andiamo con ordine.
Prodotto da Dave Sitek dei TV On The Radio e pubblicato un mesetto dopo un disco di cover caciarone, la prima cosa che stupisce del Black Album è il suono: piatto, ipercompresso e pronto per Virgin Radio, con una scaletta che potrebbe davvero accontentare chiunque, sulla carta. Abbiamo Living In L.A. (singolone à la Maroon 5), California Snow (synth tamarri a pioggia, manca solo un feat. trap e sarebbe completa), The Prince Who Wanted Everything (marcetta con tanto di fiati), Byzantine (un po’ surf rock, un po’ Haruomi Hosono) e la ballatona Piece Of Cake, anche se le mutande le abbiamo già stracciate da un po’. Can’t Knock The Hustle apre l’album, fa storcere il naso ma almeno fa battere il piedino, e Zombie Bastards lascia un retrogusto wtf ma si fa ascoltare. La mancanza di una direzione precisa, oltre alla bruttezza di troppe tracce, comunque, lascia interdetti. Lo status di meme-band è stato ormai raggiunto, almeno risparmiateci la musica.

Voto: 3.0Sebastiano Orgnacco

Panda Bear – Buoys

Che belli i recenti festeggiamenti per il decennale di Merryweather Post Pavillion, un disco cardine che ha saputo riunirci tutti in un dolce e nostalgico ricordo psichedelico di giovinezza. Dieci anni non sono pochi, ma nel frattempo gli Animal Collective hanno saputo tenerci compagnia con altri dischi di livello, sia in gruppo che con i progetti solisti di Panda Bear ed Avey Tare. Me lo immagino, oggi, Noah Lennox, sulle spiagge di Lisbona ad assaporare tramonti dolci e nostalgici, da solo o con la sua famiglia, intento a scrivere canzoni con la sua chitarra. Idee seminali, nulla di più se non piccoli sketch che poi, però, portati in studio, hanno dato vita a questo Buoys, il sesto album solista per il progetto Panda Bear. Pochi accordi di chitarra, qualche synth gorgogliante qui e là, molto riverbero e altrettanto delay, un po’ di autotune sulla voce per arricchire le armonizzazioni. Sulla carta sembrerebbe tutto coerente con il percorso dell’artista, con quel revivalismo psych-surf e quel sentimento hippie da sempre fortissimo nella sua musica; in generale il mood è positivo e apprezzabile ma, questa volta, qualcosa sembra non girare alla perfezione. Il pretesto compositivo, infatti, viene presto a noia appiattendo l’ascolto: ogni canzone si costruisce su un’idea che sembra reiterarsi all’infinito senza mai partire, senza giungere a un compimento, passando oltre senza lasciare il segno. Siamo ben lontani da quel capolavoro di Person Pitch ma chissà, forse quest’estate, su una spiaggia, al tramonto, anche Buoys troverà la sua ragion d’essere.

Voto: 6.5 – Simone Zagari

Julia Jacklin – Crushing

Ce ne sono decine, centinaia, forse migliaia di cantautrici che hanno scritto la fine di una storia d’amore un po’ tossica. Crushing – seconda prova dell’australiana Julia Jacklin a tre anni da Don’t Let The Kids Win – finisce però dritto dritto tra i migliori break-up album degli ultimi tempi. Primo, per le chitarrine vintage su voce candida (in Head AloneYou Were Right si sente eccome lo zampino di Burke Reid in produzione, in passato già al lavoro con l’eroina australiana delle chitarre per eccellenza, Courtney Barnett), e secondo per un songwriting intelligente, sincero e davvero mai banale, capace di dare freschezza a tematiche trite e ritrite. Il senso di liberazione dopo la rottura (“I felt the changing of the season/All of my senses rushing back to me”), le paure che alzi-la-mano-quale-ventenne-nel-2019-non-ha-mai-avuto (“When you took my camera/Turned to me, twenty-three/Naked on your bed/Looking straight at you/Do you still have that photograph?/Would you use it to hurt me?”), la pressione degli amici e della famiglia a ributtarsi nella vita sociale (Pressure To Party). Lungo tutto il disco la Jacklin si confessa senza metafore e senza allusioni, ed è liberatorio anche per noi accompagnarla in questo processo di riappropriazione di sé e del proprio corpo.

Voto: 7.5 Ilaria Procopio

Solange – When I Get Home

L’uscita a sorpresa di un disco come quello di Solange ha preso enorme tempo alla critica musicale. Divisa tra chi ha finito per non apprezzarne la confusionaria tracklist e la propria mancanza di hits e chi invece ora ne venera l’astrattismo figlio della scuola cosmic-jazz. Poco conta che a molti questa manovra musicale free-jazz e l’allontanamento dalle classifiche non sia andata giù, Solange ha fatto uscire il disco giusto al momento giusto. Chi critica l’onnipresente vena black, dubitandone il carattere, l’emotività e il suo motivo, non si rende conto dell’importanza di un messaggio simile in un momento come questo, sopratutto per chi a Houston, e negli US in genreale, ci vive. Con la maggioranza di brani che non coprono i tre minuti di durata, l’artista abbandona la nuova scuola rnb che ha messo tutti d’accordo ai tempi di A Seat At The Table, buttandosi su un genere che è allo stesso modo libero come le proprie liriche, a momenti frivole, in altri totalmente rappresentative. Che si senta il bisogno di criticare aspramente un lavoro così innovativo sotto la sua libertà di espressione risulta ora fuoriluogo visto anche il numero di co-produttori che sono stati, giustamente, osannati per le loro confusionarie produzioni (Thebe Kgositsile in primis, seguito da Dev Hynes). Come è già stato affermato da molti colleghi, quello di Solange può non essere un disco per tutti, ai giorni nostri però, la propria interpretazione risulta essere una vera pepita dal valore artistico e spesso emotivo più forte che mai.

Voto: 7.4 Claudio Carboni

Girlpool – What Chaos Is Imaginary

Per via dell’ incredibile predecessore Powerplant, il tanto atteso terzo album del duo di Los Angeles, Girlpool, è l’ennesimo esempio di come la camaleontica band possa dare prova della propria capacità nell’addatarsi ad ogni circostanza ed ambiente che li circondi. Si è visto infatti come proprio con Powerplant vi sia stata l’occasione per presentarsi con una full band (in live con sax alto, tra le migliori prestazioni mai viste), completando il sound del precedente disco semi-acustico. Cosa aspettarsi quindi da What Chaos Is Immaginary? Un evoluzione completa dopo una simile entrata in scena è stata riappagata da un passaggio ad atmosfere di gran lunga più eteree delle precedenti, cambiando le sorti dell’attitudine lo-fi aggressiva e tanto melanconica per la quale il duo era conosciuto. Ora in chiave più sperimentale (si veda l’utilizzo di un quartetto d’archi nell’ incredibile prodotto che è la title-track), i Girlpool si allontanano dalle armonie vocali. Quando cantata da Haromony diviene figlia della collabrazione con Dev Hynes avvenuta lo scorso anno, tra il drone e il dream pop sospirato, mentre quando da Cleo è cantato pesantemente in upbeat, seguendo un attitudine quasi pop-punk deciso dalle chitarre di Powerplant.
I Girlpool si sono ormai fatti strada come una delle band che più sta segnando l’evoluzione dell’indie rock americano, diventando, a pochi anni dal loro debutto, una realtà che già sostiene parecchi nomi della scena emergente.

Voto: 7.4 Claudio Carboni