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Zola Jesus @MAME

Venni per la prima volta in contatto con Zola Jesus -all’anagrafe Nika Roza Danilova– nel 2009; quell’anno usciva con The Spoils per Sacred Bones, e quando Sacred Bones mette le mani su qualcosa in genere non si sbaglia, è una conferma.
The Spoils era moderno e nostalgico allo stesso tempo, gotico ma senza scadere nel ridicolo, un album nel quale la cantante riusciva a far convivere in pace la sua straordinaria estensione vocale e suoni distorti di matrice elettronica più sperimentale: la sua voce calda unita a quelle note metalliche creavano qualcosa di astratto e pur palpabile, estremamente pulito.
Poi l’anno seguente uscì con LA Vampires Meets Zola Jesus dove l’artista collaborava con il gruppo di Amanda Brown (co-fondatrice della label Not Not Fun, nota per la sua vena drone) e ai miei occhi si confermò nuovamente: nonostante le critiche ricevute per la caduta in un lo-fi a tratti scontato, Zola Jesus c’era con tutto il suo fascino e la potenza della sua voce.
Quando nel 2012 David Lynch remixò In Your Nature pensavo non ci fosse più limite alla stima che potevo riservare alla cantante statunitense: il Re Mida del cinema trasformò quel pezzo in qualcosa di estremamente raffinato, caricandone le atmosfere di una nuova liricità e potenza.
Potete capire quanto mi rattristò Taiga (2014): tutte le belle parole della Danilova spese su “quanto con questo ultimo lavoro volesse trasmettere l’incredibile fascinazione e potenza della taiga -selvaggia e lontana dalla civilizzazione, ma non per questo senza vita” si dissolvevano in un album estremamente pop con aspirazioni da hit-chart “per raggiungere persone che non sono stata in grado di toccare” disse lei, “per intristire i fan” aggiungo io.

Tutti questi pensieri annebbiavano il mio cervello mentre percorrevo la distanza Venezia-Padova per recarmi al suo concerto. Accompagnata da un amico in macchina gli ho detto “Preparami a peggio: vai di tamarrate” al che ha messo Rock the Boat (non ne voglio parlare); questo avrebbe potuto farmi apprezzare anche la reunion di Al Bano e Romina (sulla quale certe notti continuo ad avere orribili incubi), inoltre mi ha fatto riflettere su quanto ci siano cose peggiori del dolore fisico… lo schifo musicale ad esempio, quello che ti colpisce dove fa più male: l’udito.
Il concerto si teneva al MAME, mai stati? Non ci sono molti posti in questa valle di lacrime che come il MAME s’impegnano a migliorare i weekendz di noi locali; è collocato vicino alla stazione, attaccato ad un sottopassaggio, il che lo fa sembrare una specie di ritrovo per poliziotti; per entrare dovete scoprire la combinazione segreta di spinte/tirate, sguardi al cielo e bestemmie che vi permette di aprire la porta dell’entrata (una specie di fatality veneta) oppure, come me, aspettare che qualcuno di meno incapace vi apra la porta.
Circondata da una delle faune più varie mai vista ad un concerto: gente di ogni età e con ogni età intendo 18-50, e con fauna varia intendo che credo di aver visto un emo spaesato che si lisciava compulsivamente il ciuffo… eppure pensavo si fossero estinti dopo la grande epidemia indie: ho sentito che in certi zoo cinesi li fanno accoppiare per preservare la specie, chissà

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HEXN


HEXN
si è materializzato sul palco senza dire nulla: circondato dalle sue candele nere aveva l’aspetto di uno sciamano ed il potere di un incantatore. Suonava solo eppure riempiva il palco con la sua massa di capelli scuri ed i suoi strumenti (sintetizzatori e cordofoni vari); ogni passaggio da uno strumento all’altro avveniva lentamente come in un rituale.
Il pubblico inconsciamente si era disposto a semicerchio di fronte al performer vicentino, come se la musica da lui creata (un ambient drone tenebroso e sperimentale) riuscisse ad incuriosire ed allo stesso tempo intimidire chi l’ascolta: sarà quella carica esoterica prodotta dai suoi suoni che nell’aria si trasformano in immagini dissolte e racconti oscuri.
Quando silenzioso è sparito dal palco nemmeno ricordavo dov’ero e cosa stavo facendo, non so se sia stata colpa di un incantesimo di HEXN o del fatto che la sera prima avevo fatto le 4 ri-facendo maratona di Twin Peaks (Lynch, ancora, ovvio).

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Zola Jesus

Annunciata dal profumo dell’incenso acceso sul palco è comparsa, di nero vestita, Zola Jesus! Accompagnata da tre tenebrosi cavalieri: uno alle percussioni (un drum set ibrido), uno al trombone e synth ed uno alle tastiere.
Ma è uno scricciolino” è stato il commento che mi ha fatto sbellicare (scricciolo è un modo dolciotto di dire che è alta 5 ft. secondo le misure oltreoceano, un cazzo ed un barattolo secondo la convenzione italiana), ma non ci ha lasciato fare constatazioni sulla sua altezza a lungo: ha attaccato con Taiga (prima traccia dell’omonimo album) e ci ha zittito tutti con il suo poderoso vocione; già di per sé era una dei pezzi più convincenti dell’album, ma live ragazzi è un altra storia: le percussioni (niente di che, ascoltate a casa) con quell’oscuro batterista olimpionico diventano adrenaliniche ed i fiati che a fine della canzone (troppo posh in cuffia) diventano potentissimi, soprattutto quando sei così vicino al trombone che quasi sembra spostarti i capelli, Zola dal vivo canta con sicurezza e precisione tali da ammutolire, una costante per tutto il concerto.

Quando sento l’intro di In Your Nature sono li li per lasciarmi scappare un urlo acuto emozionantissimo, ma ci ripenso ed io ed il mio ceppo cantiamo stonatissimi il ritornello a squarciagola: “if it’s in your nature you’ll never win”. Cosa dici ceppo? Era una ficata? Hai ragione!
Dangerous Days, Dust, Hunger, sono poche le tracce del’ultimo album che mancano all’appello, ma quella che più di tutte mi ha lasciata sbalordita è stata Nail: il testo è uno dei pochi dell’ultimo album in grado di smuoverti davvero, immaginatevelo cantato a cappella: difficile da reggere per ogni persona con dei sentimenti. Il pubblico incitato a cantarla è intimidito dalla potenza della voce di Zola: un “Set me free” della cantante sovrastava lo stesso ritornello cantato da tutti i presenti e terminato il brano ha ringraziato il pubblico confidando che il primo concerto fuori dagli States lo fece proprio in Italia, ci ha pure aggiunto una bestemmia, li metà dei veneti in sala s’era innamorato.
Night è stato il punto e virgola che ha avvertito che la serata stava arrivando ad una fine -pezzaccio- non riesci a fare a meno di cantarlo, sarebbe stata la perfetta conclusione già di per sé: “It’s getting late, it’s getting dark, […] so don’t you worry, Just rest your head’, Cause in the end of the night we’ll be together again”, ma quando sembra tutto finito, senza farsi troppo desiderare la cantante statunitense torna per l’encore per farci piangere con Skin ed agitarci nuovamente con Vessel: una bomba, percussioni arrabbiatissime, Zola che balla come fosse stata morsa da una tarantola, degna conclusione di un concerto che non mi sarei mai aspettata.

Zolina del mio cuore, che dici, lo mandiamo affanculo il pop?