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Si è appena conclusa la terza edizione dello Zanne Festival, evento musicale catanese ancora giovane, ma già capace di catalizzare migliaia di spettatori da ogni parte d’Italia portando in Sicilia band del calibro di Swans, Jon Spencer Blues Explosion, Blonde Redhead, Calexico, Black Rebel Motorcycle Club e tanti altri. Supponiamo che non abitiate a Catania, o che siate tra i pochi catanesi a non avere assistito a nessuna delle quattro giornate, eccovi un vademecum, o se preferite un piccolo bignami del festival, che vi potrà tornare utile come argomento di discussione o per fare i fighi con i vostri amici. Tralasciamo volutamente particolari etno-gastronomici da Gambero Rosso, e i bollettini meteo alla Studio Aperto (per la cronaca: faceva caldo) e andiamo ad analizzare con dovizia di particolari i momenti clou dello Zanne.

The Dead Brothers. Probabilmente la prima vera sorpresa del festival. La formazione svizzera, fondata a Ginevra dal leader Alain Croubalian, si descrive come un’orchestra per funerali, il cui ultimo lavoro viene sintetizzato come se “Nietzsche incontrasse i rivoluzionari centramericani e i bardi criminali(?) brindando con un cocktail di piscio e kerosene, assieme al diavolo in persona”. Questi allegri ubriaconi elvetici, agghindati in maniera ancora più anacronistica della loro musica, sembrano usciti dal set di un film di Kusturica. Tra ballate gipsy e vene blueseggianti che ricordano le sonorità di un Tom Waits in diminutio, riescono a intrattenere un pubblico sonnecchiante, reduce dalla perfomance degli Ultimate Painting. Croubalian, gesticola con lo stesso cipiglio di un malato di Parkinson, arricchisce di preamboli e aneddoti l’introduzione di ogni brano, mentre in sottofondo si riesce a udire il marranzano, strumento tipico siciliano. Non paghi dell’istrionica perfomance, i Dead Brothers si esibiscono in un curioso fuori programma, improvvisando una jam acustica scendendo dal palco, in mezzo al pubblico festante. L’impresa più difficile sarà riuscire a interrompere questa lunga improvvisazione, maledettamente simile, per vigore, a quella del lungometraggio Gli Aristogatti della Walt Disney. Idoli veri.

deadbrothers

FFS(Franz Ferdinand&Sparks). Ovvero, il nome di punta della manifestazione, che ha fatto registrare il più alto numero di presenze. La mia curiosità (in realtà non solo la mia) era legata al possibile cambiamento di espressione dello spettatore medio alla scoperta che non si trattasse di un concerto dei Franz Ferdinand ma degli FFS, ossia la neonata formazione, composta dai membri del quartetto scozzese e gli Sparks, icone del pop americano seventies. Come preventivato, la scaletta è prevalentemente composta dai brani del nuovo album, che come vi avevamo raccontato settimane fa, eufemisticamente non ci aveva convinto. Del resto la platea si scalda oltremodo solo per i classici dei Franz Ferdinand, riarrangiati e rallentati per la peculiare occasione, in particolare per Take Me Out . Nonostante tutto, la performance offerta dal sestetto è gradevole, corale; Kapranos, a perfetto agio tra la folla festante, gioca e fa il piacione, tesse le lodi di Taormina, salvo poi ammettere, da fiero paraculo, la superiorità della capitale etnea. Il frontman scozzese, ostenta la sua padronanza dell’italiano ripetendo più volte la parola “minchia”. Vicino a me odo dolci parole: “La prossima volta che dice minchia gli tiro una pietra in faccia”. Dal quel momento in poi non si udirà alcuna espressione volgare. Vamos. Mattatore indiscusso del live è stato però Ron Mael, tastierista degli Sparks, con la sua espressione pietrificata e i suoi baffetti stilosissimi. Menzione speciale va fatta per il live dei Balthazar, che hanno impreziosito con il loro art-pop il pubblico catanese, presentando la loro ultima fatica, Thin Walls. Un pop retrò, con un sound molto particolare e riconoscibile, non scevro di melodie accattivanti( Fifteen Floors su tutte) e dal tasso di energia piuttosto elevato. Personalmente , pur non amandoli alla follia, li ho apprezzati più degli FFS. In più mi è stato raccontato che sono delle persone integerrime, daje.

ffs

Spiritualized & A Place To Bury Strangers. Se siete amanti dello shoegaze e dei volumi forti, la seconda giornata del festival ha riservato un menù decisamente ricco. Apre le danze la formazione newyorkese, forte del nuovo innesto Robi Gonzalez alla batteria. Lo show è incendiario, pochissima testa e tantissima pancia. Il trio alterna classici a brani del nuovo LP Transfixiation, e mentre riprendi fiato tra un brano e l’altro ti ritrovi a pochi metri Dion Lunadon (bassista della band) a fare crowd surfing in mezzo alla folla. Fill The Void, accende la folla mentre Oliver Ackermann inizia il martirio della propria chitarra, lanciandola in aria come se non ci fosse un domani. Non paghi della virulenza generata on stage, la formazione di Brooklyn decide di inscenare un set elettronico di venti minuti nello stand PlayLoud! di Giuseppe Orlando, a una ventina di metri dal palco, mentre il pubblico, incredulo, si sposta in massa per assistere alla prosecuzione del live. Imprevedibili.

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Giusto il tempo del cambio palco ed ecco palesarsi, celato dagli immancabili occhiali da sole, Jason Pierce, padre fondatore dello space-rock e i suoi riformati Spiritualized, per cui i peana non saranno mai abbastanza. Si inizia subito con l’inedito Here It Comes (The Road Let’s Go), seguito dalla ballata Lord Let It Rain On Me, impreziosita dalla sacralità gospel delle coriste e dal bar chimes, costantemente percosso dal batterista. Non c’è tregua tra una traccia e l’altra: Mr Spacemen ora ti accende con Electricity, tratto dallo storico Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space, ora ti ipnotizza con le atmosfere oniriche di Shine A Light ed Electric Mainline. Non c’è mai autoreferenzialità nelle jam spaziali della band britannica, condensate in un muro di suono psichedelico che fa letteralmente viaggiare e importa poco se le uniche parole pronunciate dal frontman siano state un sintetico “Thank You” sulle note di Walkin With Jesus, cover degli Spacemen 3 (precedente band di Pierce), prima di regalare un encore composto da due pietre miliari come Come Together e Take Your Time a un pubblico meno numeroso rispetto al giorno precedente. Qualche Dottore in Giornalismo si è lamentato dell’algidità e della posizione sghemba sul palco del leader britannico, evidentemente non ha mai assistito a un live degli Spiritualized. Lisergici.

spiritualized

Catania & la musica elettronica. Ho sentito più volte nell’arco della mia vita sproloqui del tipo “Catania è una delle capitali italiane della musica elettronica”. Certo, un po’ come dire che l’Italia è il paese della legalità o la Grecia della lotta contro l’evasione fiscale. Fatto sta che la serata del 18 Luglio ha registrato un deficit d’ingressi notevole. Ad aprire le danze è toccato a Camp Claude, una gattona in salopette e ai Peter Kernel, trio garage, che ricorda, vuoi per la line up con la bassista-vocalist, una sorta di Sonic Youth/Blonde Redhead versione analcolica, capace di intrattenere il pubblico in italiano, grazie alle origini svizzere del cantante/chitarrista Aris Bassetti. Decisamente meglio gli Hookworms, che devastano i timpani degli spettatori grazie ai loro volumi ipercafoni. Veniamo all’elettronica dura e pura: il primo live set è toccato a Luke Abbott, producer inglese dal gusto retrò, che ha alternato sonorità ispirate alle produzioni tedesche anni 70’, tanto care agli amanti del krautrock, per passare ai (quasi) conterranei Boards Of Canada. Il set non ha entusiasmato molto qualche spettatore, che ha fatto partire cori beceri al grido di “Sei mollo!”, di malesaniana memoria. Ultimata la performance di Abbott, tra i neon variopinti installati sul palco, spunta Four Tet, ma in molti, nella capitale della musica elettronica, sembrano non accorgersi dell’avvicendamento tra i due artisti. La leggenda della folktronica propone i nuovi brani di Morning/Evening, due lunghe suite di venti minuti, che non fanno altro che confermare il declino artistico e la parabola discendente di Hebden, che utilizza sonorità esotiche legate all’India. La performance viene interrotta svariate volte per problemi tecnici e musicalmente il live risulta monocorde tanto che tra il pubblico c’è chi abbandona anzitempo il Parco Gioeni: peccato.

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Godspeed You! Black Emperor. Dopo le gradevoli esibizioni di Jacco Gardner, con il suo pop psichedelico dalle tinte barrettiane e le suggestioni blues dei Timber Timbre, scende l’oscurità sul palco del Parco Gioeni. Dopo una decina di minuti di trepidante attesa si palesano gli otto membri dei Godspeed You! Black Emperor. Difficile catalogare questa esperienza come un semplice concerto, difficile etichettare la musica proposta dai canadesi, che scardinano la struttura dei loro brani, regalandoti una sensazione di straniamento curiosamente appagante. Si inizia con la consueta Hope Drone, mentre la platea ascolta in religioso silenzio il violino di Sophie Trudeau. I volumi aumentano, così come aumenta la tensione, durante l’esecuzione di Asunder, Sweet and Other Distress (qui la recensione, qui il live report di una data dell’album tour), una lunga suite composta da quattro canzoni. Non una parola da parte della band, l’unico feedback con il pubblico è offerto dai filmati, rigorosamente monocromatici, che campeggiano sullo sfondo legati a doppio filo con lo scorrere incessante della musica: paesaggi urbani, asettici uffici, archivi di file si intersecano naturalmente all’oscurità sonica dei brani, pregna di contenuti densi e misterici. La precisione nell’esecuzione è quasi oscena, sembra di assistere all’esibizione di un’orchestra con la potenza di un gruppo rock tradizionale (anche se gli Swans, in quanto a volumi, regnano ancora incontrastati). Nelle due ore che compongono lo show, i giganti del post rock riescono a inserire alcuni inediti e a riproporre Mladic, brano dalle atmosfere arabiche, dal precedente LP del 2012, legato a doppio filo a tematiche politiche. Conclude la serata, in maniera altrettanto epica, The Sad Mafioso, forte di una melodia solenne capace di stordirti e scorticarti. L’ipnosi termina quando il batterista Tim Herzog ritorna sul palco per spegnere l’amplificazione. La band non concede l’encore, e con l’epifania di Montreal cala il sipario.

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Tirando le somme, non si può che applaudire la scelta coraggiosa degli organizzatori di proporre un cartellone variegato ed eterogeneo, capace di accontentare diversi palati musicali. Anno dopo anno il festival cresce a dismisura al punto da offrire, in questa edizione, una preview totalmente gratuita con artisti del calibro di Soft Moon, Amen Dunes, The Fall e Prinzhorn Dance School, senza menzionare le mille attività collaterali che unitamente alla bellezza della location rendono lo Zanne un evento unico nel suo genere. E miglior notizia non poteva esserci a poche ore dall’epilogo, con la conferma per l’edizione 2016, fatto non certo scontato in una realtà ancora poco avvezza ai grandi appuntamenti rock. Olè.

(photo credits: zannefestival.com)