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Appena entrati al CarroPonte di Sesto San Giovanni (MI), è subito chiara la portata del fenomeno di costume che Tyler, The Creator ha saputo generare negli ultimi anni: bucket hat e 5 panel sulla metà delle teste presenti, calzettoni ben sopra le caviglie, più gente in coda allo stand del merch GOLF che sotto al palco. Dopo una prima occhiata fugace, però, ci si rende conto che il pubblico è più variopinto del previsto: sbarbatelli/e accompagnati/e dalle mamme (poverine), molte più persone sopra i 20 anni di quante te ne aspetteresti, skater, rapper, bianchi, neri, asiatici. Tutti lì, sneaker nel fango, in scalpitante attesa della venuta di Tyler.

Prima di lui, però, è Taco a salire sul palco per scaldare la folla con un “djset” (quelli fatti con iTunes e senza cambi, un po’ come alla festa delle medie) che passa per Kanye, Kendrick, Drake e bottiglie d’acqua lanciate in aria piene e atterrate sulla testa di qualche malcapitato. Quando parte WHAT THE FUCK RIGHT NOW faccio appena in tempo a lamentarmi che vorrei sentirla fatta dal vivo che il Creatore si palesa, accompagnato da Jasper, saltando e rappando come un forsennato: lo show ha finalmente inizio e il Nostro tira dritto come un treno, un mitra su ogni pezzo, sempre a tempo sia con le rime che con le movenze. Si percepisce che non è lì solo per giocare, il live sul suolo italico non è il semplice compendio di un cazzaro ormai dedito più alla moda che alla musica: Tyler è sul palco e sul palco ci sa stare, in maniera matura.

Si passa da Fucking Young a 48, da She a Jamba, tutte cantate all’unisono; si va indietro ai tempi dell’Odd Future con Rella, subito colta dal pubblico che risponde “Who’s there?” dopo l’iconico “Knock knock” che introduce la strofa di Tyler. I picchi, però, si raggiungono sicuramente con Domo 23 e quel “Fuck that, Golf Wang” che fa volare tutto, con la conclusiva Tamale più volte richiesta durante il live (al punto che Tyler stesso, scherzosamente, riprende le voci insistenti con un “Shut the fuck up, I run this shit, not you!”) e, chiaramente, con IFHY e Yonkers. Su The Brown Stains of Darkeese Latifah Part 6–12 (Remix), poi, Tyler fa abbassare tutti, per poi saltare insieme sull’ingresso del beat.

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Non dimenticatevi però che Tyler è un totale sregolato, un weirdo unico nel suo genere. I 60 minuti di musica, infatti, sono stati intervallati da siparietti e sketch nati dopo il lancio di oggetti sul palco (un alieno gonfiabile, un maialino giocattolo e un reggiseno), da salti mortali all’indietro, da balli forsennati a petto nudo con il coinvolgimento del pubblico per cori e battiti di mani (con la classica ottima figura italiana del clap fuori tempo: “You have to clap with us, not against us”). In tutto ciò c’è stato anche un apprezzato, piacevole e doveroso accenno al Black Lives Matter accolto con un applauso dalla platea.

Tyler ha dimostrato di non essere un semplice fenomeno di costume, un figlio dell’hype tenuto in vita solo da ragazzini, ma un artista ed entertainer consapevole, con uno stile unico che non ha bisogno di accodarsi alle mode o ai movimenti, ma che le mode e i movimenti li crea. Il pubblico era entusiasta e preparato sui pezzi al punto che Tyler, Taco e Jasper sembravano genuinamente straniti dai 1500 circa che avevano davanti (a parer mio ancora pochi, ma vabbè), quasi non si aspettassero nemmeno lontanamente una risposta del genere nel Belpaese, (si spera) sempre meno provincia musicale del mondo.
L’Italia non sarà la California e Milano non sarà Los Angeles, ma ho come l’impressione che quei “CIAO” finali urlati a gran voce siano un bell'”arrivederci”.

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