Di Tim Hecker mi affascina come riesca, sempre, ad inserire la sua arte nel tempo in maniera totalmente libera e intima, come uno sfrenato ed incontrollato fenomeno naturale contro cui gli schemi umani nulla possono, come una pietra preziosa incastonata nel più scintillante dei gioielli reali, come quei fiori che non si sa come ma trovano linfa vitale nell’asfalto.
In questo scenario, lo spazio diventa un elemento fondamentale entro cui circoscrivere un live totalmente esperienziale. La sala grande del Teatro Franco Parenti, piena fino al sold out e preventivamente inondata da una coltre che annebbia la vista, si è rivelata un ottimo contenitore scelto da Electropark Exchanges per l’apertura della rassegna.

Non c’è bisogno di convenevoli né di presentazioni, bastano i droni distorti per far capire, nel buio, che Tim Hecker ha iniziato la performance. Le basse frequenze colpiscono subito, dritte in petto, fanno vibrare l’impianto, i tralicci, i seggiolini e tutto il legno del teatro. Le stilettate di rumore arrivano all’udito come delicati pugnali, completando una sonora visione d’insieme unica nella sua idilliaca perfezione.

Levate un paio di comparse da Virgins, sono le composizioni di Love Streams a farla da padrone; l’ultimo lavoro viene riproposto in toto ma all’appello mancano i campioni vocali che, di fatto, ne arricchivano la produzione tinteggiandolo con una paletta di colori più variopinta rispetto alla discografia pregressa.
L’amore scorre comunque, certo, ma è come se Hecker volesse affermare che, in sede live, non ci sia spazio per un paradiso sonoro, per una ariosa, per quanto sfocata, luce; Hecker ci vuole tenere lì, vuole farci levitare incollati a metà tra dolore e liberazione, in una stasi che non cerca un climax ma che, a conti fatti, climax lo è già sul nascere.

Mentre i flussi sonori scorrono è facile perdere la concezione del tempo e ancor più semplice è perdersi nei non-luoghi del pensiero, flebilmente illuminati dai led dell’istallazione, compendio visivo minimale che ottimamente accompagna la performance.
I confini del privato sfumano naturalmente e ognuno, ne sono sicuro, viene intimamente scosso dalle pervasive bordate del sound del canadese: corpose, fisicamente destabilizzanti, pesanti sullo sterno e devastanti per i padiglioni auricolari, per la mente. I sintetizzatori, i pianoforti, le chitarre e tutti gli elementi che plasmano la sinfonia si intersecano e si sfibrano, si lanciano in aria volteggiando come aggraziate ballerine per poi cadere al suolo come umili macigni, vittime della forza di gravità, sorte comune di una preziosa quanto risibile umanità.

L’arte di Hecker suona come un perenne divenire inarrestabile, lo stesso divenire in cui ognuno di noi è immerso per natura e perciò, forse, oltre a musica essa sa essere anche e soprattutto fotografia di tutte quelle dissonanze e sbagli e dolori e liberazioni e catarsi e gioie di cui ci componiamo, oggi ieri e per sempre.
L’arte di Hecker profuma di eterno, lo si percepisce senza difficoltà poiché sa elevare il rumore a metafora della condizione umana. Proprio per questo, ogni volta, è un po’ come ritrovare se stessi nel luogo che più ci è caro, riconoscendoci allo specchio, senza maschere, a fare i conti con la vita per davvero.

 

Foto di Francesco Margaroli.