Daytona è un nome associato ad icone del lusso e del successo: è un modello di Rolex, è un modello Ferrari, è un circuito automobilistico fra i più celebri al mondo. Pusha T sceglie di intitolare così il proprio ultimo album, a tre anni di distanza dall’incoronazione a King Push e presidente della G.O.O.D. MUSIC, label fondata dall’amico ed eterno supporter Kanye West.

Pusha ha compiuto quarantuno anni e calca la scena da oltre venti, originariamente al fianco del fratello Gene come metà del duo Clipse, asse portante della cultura hip hop underground anni Novanta. Originario del Bronx, cresce in Virginia ed è uno che la strada l’ha vissuta: entra adolescente nel giro dello spaccio, testimonia gli anni del cocaine rap di cui diventa narratore, rimane stoico davanti a dissing che lo criticano perché più vecchio del suo producer e con alle spalle minore notorietà. Risponde forte e rafforzato dalla potenza di un disco che sa essere un capolavoro, e che come tale viene universalmente riconosciuto (debuttando sul podio della US Billboard 200): si sarebbe dovuto intitolare King Push, ma si trasforma in Daytona per naturale evoluzione, esprimendone la maturità artistica e vulcanica che attendeva solo di esplodere.

Credits: Fabio Izzo

Un concerto rap schiude sempre un’energia a sé stante, il calore di una comunità consapevole della sua unicità, pur nel tempo essendosi il genere diffuso tentacolarmente. Si prenda ad esempio la trap – per molti rovina della musica tutta – che nella sua voracità mainstream un dono lo possiede: aver avvicinato un pubblico enorme, altrimenti inconsapevole, all’hip hop, alla sua cultura e immaginario. Questo ad accrescere un universo a lungo di nicchia, composto di appassionati che in quel genere hanno riletto le proprie esperienze e si sono accorati in un’unica voce, pugno alzato verso il palco, biografia di generazioni. È la platea che si raduna al Fabrique di Milano per acclamare il suo re, mescolando fra i presenti il gotha della scena italiana (Ensi, Egreen, Marracash), ragazzi giovanissimi e fan della prima ora – che intonano i testi a memoria, occhi chiusi come fosse un concerto degli Aerosmith.

L’opening act è affidato a Priestess (quota rosa della Tanta Roba di Gué Pequeno), e Nitro, campione di freestyle e stella di MTV Spits, fresco di pubblicazione del terzo lavoro in studio No Comment, che consolida la collaborazione avviata con Salmo e MadMan. Davanti a una folla esultante, lascia lo stage sulle note di Ho Fatto Bene, secondo singolo estratto dal disco, annunciando l’arrivo del Messia di lì a qualche minuto.

Duro e incazzato come uno della vecchia scuola, con la fotta di un giovanotto che ancora deve prendersi tutto, consapevole, autorevole ed esperto come la colonna d’Ercole che a tutti gli effetti è: Pusha T irrompe sul palco, scoppia l’intro di If You Know You Know. Pochissimi proclami, brevi e d’impatto (“Daytona is the album of the motherfucking year”, “When I say G.O.O.D., you say Music”), scenografia che consiste nel solo DJ e nelle luci, zero gioielli in vista, tanta energia e tanta, tantissima presenza scenica. Non ha bisogno di nulla, King Push, nessun ornamento a compendio della sua performance: è il suo show, il suo palco, il suo pubblico, e lui si prende tutto senza lasciare prigionieri. La sua più grande capacità è quella di unire e far incontrare i gusti di molti, sempre rimanendo fedele alla sua cifra artistica e stilistica.

Credits: Fabio Izzo

Assistere alla Daytona Experience significa partecipare alla celebrazione del sovrano e del suo regno, dagli albori sino ad oggi, passando per tutte le gesta più esemplari. C’è Daytona nella sua interezza, ci sono un paio di pezzi dai dischi precedenti (M.F.T.R., F.I.F.A., Numbers On The Boards), le radici con i Clipse (Grindin’), passando per le collaborazioni, da Move That Dope e Pain con Future e Nosetalgia con Kendrick, a quelle, ovviamente, con Kanye: So Appalled, Runaway, Feel The Love, New God Flow, Mercy, Don’t Like.1 e altre ancora. Tutte le tracce sono chiuse nel giro di due ritornelli, scevre dei featuring in sé e anche della voce in base, concatenate senza sosta, senza pausa. L’intensità, in questo modo, rimane sempre adrenalinica e il coinvolgimento del pubblico non cala di un filo, come un’auto in corsa che non rallenta in curva.

Quasi un’ora di performance che vola come un missile: Pusha salta e corre per il palco, balla, ringrazia il cielo per il suo successo e si rivolge alle prime file ruggendo la propria supremazia. Pur se coronata, la sua testa è rimasta quella della strada, imperatore il cui scettro è un microfono infuocato.

[Redatto a quattro mani con Simone Zagari].