Durante la stesura del report, il giorno dopo il concerto, mi fischiano ancora le orecchie, e penso che andranno avanti ancora per un po’.
E perdonatemi la retorica spiccia ma definire solo “concerto” ciò che è andato in scena all’Alcatraz di Milano domenica 12 ottobre è quanto mai riduttivo e improprio.
A salire sul palco sono gli Swans 2.0, quelli riformati dall’oggi sessantenne Michael Gira nel 2010 dopo 13 anni di inattività. A segnare questa seconda vita del gruppo ci hanno già pensato due monoliti indiscutibili come The Seer e l’ultimo, recente, To Be Kind, preceduti dal buon My Father Will Guide Me up a Rope to the Sky.

Prima di raccontarvi l’esibizione dei Cigni è però d’obbligo spendere qualche parola per Pharmakon, spalla di lusso nonché valore aggiunto alla serata.
La stellina dell’universo Sacred Bones, in uscita con il nuovo Bestial Burden in questo 2014, spaventa a porte ancora chiuse con un soundcheck tanto breve quanto bestiale: quattro urla nel microfono che arrivano fin sul marciapiede dell’Alcatraz.

Quando è il suo turno sale sul palco di nero vestita, nessun convenevole, attacca subito con un tappeto di synth scarno e orrorifico per poi percuotere senza pietà un pezzo di lamiera.
È però con il microfono in mano che Margaret Chardiet dà il meglio (o il peggio) di sé: urla sguaiate e tanta, tanta disperazione. Scende poi tra il pubblico, prende letteralmente al lazo due persone col cavo del microfono per sbraitargli in faccia.
Qualcuno sorride, qualcuno è a disagio, qualcuno pagherebbe per avere un esorcista in sala.
Un’esibizione che sicuramente non è musicale nel senso proprio del termine, più teatrale se vogliamo; ma fondamentalmente è proprio questo il target del progetto in sé: comunicare alienazione, disagio, occlusione, nessuna via di scampo. E l’obiettivo è stato raggiunto.

Si riabbassano le luci, è il momento degli Swans.

Già dai 20 e più minuti iniziali di solo gong, piatti e feedback si percepisce che la serata sarà pesante, impegnativa, sotto molteplici punti di vista.
L’opener Frankie M, traccia ancora formalmente inedita seppur suonata in apertura di ogni data di questo tour, dura veramente tanto, fa soffrire il pubblico che se potesse chiederebbe in ginocchio di far entrare quelle dannate chitarre. Ma non fraintendete, non lo dico con accezione negativa. È così, si sa, si sapeva. Dubito che qualcuno possa capitare “per caso” a un concerto degli Swans senza sapere a cosa si vada incontro.
C’è sofferenza nell’interpretazione, c’è ancor più sofferenza nella fruizione.
Gira e compagni dilatano ciò che su disco pareva già infinito, fanno sudare qualsiasi cosa prima di donarla al pubblico, che sia un cambio di accordo, l’ingresso della seconda chitarra, l’irruzione della voce. Bisogna aspettare, arrivando alla soglia dell’implorazione e della sopportazione. Bisogna ammirare la cattedrale sonora che si costruisce piano piano sino a vederla stagliarsi su di noi, imponente, grandiosa, oscura, le cui guglie proiettano le ombre dei sei Cigni sull’audience.
E dopo più di 30 minuti l’opera è completa, il crescendo può liberarsi, inondare i timpani e i petti del pubblico a volumi forsennati.
Gli Swans non sono risorti perché in realtà non sono mai morti.
A seguire A Little God In My Hands, con il basso e la parte ritmica ancor più marcate che su disco, e la maestosa, colossale, The Apostate, tra clangori che richiamano alla mente guerre lontane e scenari distruttivi.
La seconda parte del concerto è aperta dal climax di Just A Little Boy con un Gira che salta a tempo sugli accordi finali per poi posare la chitarra e lanciarsi in danze sfrenate, tribali, a tratti inquietanti, sulle note di un altro pezzo inedito: Don’t Go. L’atmosfera ora è più sciamanica, oniricamente distorta ma pur sempre battuta nel tempo da ritmi marziali.
La chiusura inizia con Bring The Sun, anch’essa alla ricerca tanto spasmodica quanto flemmatica di un culmine, che parrebbe non arrivare, ma che poi si manifesta in tutta la sua potenza epifanica: Black Hole Man. Un riff siderale, un pezzo definitivo che non aspetta altro se non l’incisione su disco.
150 minuti pressoché ininterrotti di performance, di rumore, di rock, di industrial, di goth, di dark ambient, di totalità incontrastata della sperimentazione, a 60 anni.

Parentesi che merita più di una sottolineatura è l’ossimorico e ambivalente rapporto con il pubblico. Se da un lato Gira e compagni, durante la performance, paiono imperturbabili statue marmoree dallo sguardo incazzato, dall’altro vogliono percepire la presenza delle persone sotto al palco.
Ne sono palesi esempi la richiesta di alzare le luci, apparentemente abbassate senza motivo, perché “I want to see my public, I want to see the people over there too, yeah but not too much they’re not that beautiful”, e l’incitamento ad applaudire più forte.
Coronamento e chiusura di questa piccola, piacevole, parentesi sono il triplice inchino a fine performance, con tanto di presentazione dell’intera band, sorrisi, e coito simulato da Gira, evidentemente metafora dell’apprezzamento degli applausi scroscianti; senza dimenticare la disponibilità di Michael e soci a firmare dischi e chiacchierare con i propri ammiratori a concerto terminato.

Gli Swans hanno dimostrato, ancora oggi, di rappresentare su disco, sul palco, tra i propri fan, un’icona.
Alla faccia di tutte quelle reunion che sanno di “acchiappa-soldi”, Gira e compagni sono tornati per amore per la musica, per il pubblico, ma ancor di più per amor proprio.
Per suonare e sperimentare ancora con la stessa voglia e la stessa carica di trent’anni fa; non contenti di aver influenzato un ventaglio ampissimo di artisti contemporanei, sono ricomparsi per reclamare il proprio scettro a suon di rumore e guerriglie sonore.
Il trono è stato riconquistato, Gira ha definitivamente reindossato la corona e, dopo la performance di domenica, possiamo predire senza difficoltà alcuna un altro lungo e prospero reame per gli immortali Swans.

Foto di Alessandro Previdi.