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Nei Suuns coesistono forze opposte: ambizione prog e attitudine noise, così come austerità e psichedelia, sono in perfetto equilibrio nelle loro forme espressive tra il krautrock e il post-punk. Il nome stesso della band canadese, trasposizione al plurale della parola tailandese “zero”, ne rappresenta la natura enigmatica espressa anche nel terzo album Hold/Still.

In una calda serata di giugno il quartetto di Montreal, reduce dal Primavera Sound e nel mezzo di un tour mondiale, si esibisce in una delle più interessanti venue dell’underground musicale romano, il Monk Club, andando a chiudere la fitta stagione di buoni concerti proposti da questo circolo Arci.

Tra riverberi e delay che costruiscono un intro tenebroso si fa largo la voce di Ben Shemie, la musica si stratifica e in due minuti netti la band raffigura, con crescendo e stacchi, l’idea di una luce fluorescente pulsante.

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Perfettamente sintonizzati con il pubblico, i Suuns hanno già creato l’ambiente psych per la mistica Careful: l’incedere lento del pezzo e la voce robotica tipica del krautrock rendono il senso di alienazione di un narratore fluttuante che ci guarda dall’alto. L’acustica della sala del Monk è buona, i suoni si amalgamano lasciando la voce opportunamente dislocata, e la band si diverte parecchio.

Così il groove coinvolgente e il ritmo incessante di Careful introducono nella dimensione sonica più profonda e meno fredda del concerto dei Suuns, tanto che nell’intermezzo successivo Ben posa la chitarra e canta con un fare scanzonato dall’alto tasso di sensualità che gli assicura un paio di limonate post-concerto.

Imbracciato nuovamente lo strumento Ben si lancia con Joseph Yarmush in uno shoegaze sfrenato e assorto, che introduce l’attesissima Translate. L’attacco di batteria di Liam O’Neill riproduce il manierismo tipico del krautrock, parallelamente l’atmosfera vorticosa creata dalle chitarre e dal synth potrebbe riprodursi in un loop all’infinito preparando la base psichedelica per 2020, uno dei migliori pezzi di Images Du Futur. Al suono della slide guitar di Joseph le ragazze iniziano a sfilare gli elastici dai loro polsi per tirarsi su i capelli: nel locale si percepisce una temperatura di 40 gradi circa, ma la tentazione di ballare è irresistibile.

I Suuns appaiono suadenti, sono certamente ammalianti e il motivo risiede nei crescendo, che a più riprese riescono a creare sul finire di ogni pezzo, ma che si rivelano poi defunzionalizzati. Ovvero dei crescendo che non portano a nessuna “esplosione”, nei quali interviene il suono del synth di Max Henry a informare l’ascoltatore di essersi smarrito. Si produce così un effetto di straniamento che, tutto sommato, lascia il pubblico con un sorriso compiaciuto ad aspettare il pezzo successivo.

Nella seconda parte della setlist i toni si fanno cupi a partire da Resistance, in cui la ripetizione ossessiva del verbo “resist” e l’interpretazione vocale di Ben che ricorda quella di Jim Morrison mantengono stabile la tensione creata fino a quel punto. Con Paralyzer il vortice dei Suuns trascina verso l’oscurità, centinaia di teste assorte si muovono a tempo di musica, soprattutto quella di Joseph Yarmush, la cui faccia non si è mai vista durante il live perché coperta dai capelli, e Max Henry, particolarmente preso bene nella sua camicia hipster abbottonata rigorosamente fino all’ultimo bottone.

Tra i bassi oltraggiosamente alti di Instrument, si fa largo la psichedelia più acida e intrisa di blues di Sunspot. Il tono ora intimistico prepara all’introspezione proposta da Brainwash, singolo estratto dall’ultimo album che si chiude con un lungo feedback desolato.

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In chiusura i Suuns si concedono quello che li diverte di più, ovvero una versione completamente rivisitata in chiave space rock di Pie IX, dove Ben gioca con le parole e con un delay esagerato, amalgamandosi amabilmente con i suoni di chitarra di Joseph dal gusto floydiano à la Syd Barrett. Tutto pronto per il viaggio di ritorno, Ben scalda la chitarra rivolta verso l’ampli settando i pedali per una resa più krautrock possibile. Joseph imbraccia il basso dicendo che lo fa solo per questo pezzo di chiusura. Parte così una versione potente ai limiti del cosmic rock dei Tangerine Dream di un pezzo estratto dal primo album, Arena, dando l’idea di essere in procinto di alzarsi con la loro navicella.

Con il pubblico ancora stordito la band si ritira nel backstage, concedendo, come da tradizione, un ultimo pezzo a grande richiesta. Rientrano con fare estremamente serio e si scatenano in un noise cattivissimo con Powers Of Ten, come a dire “provate a chiederne ancora”. Effettivamente riescono a spazzare via quasi tutto il pubblico, e quando la sala si svuota rimangono solo un paio disagiati che con lo sguardo ancora assorto fissano lo stupido gonfiabile della scenografia che riporta il nome della band, dopo che i Suuns hanno stravolto la loro percezione abituale della realtà.