Sono appena le nove e mezza di sabato sera e con tequila e tropicalismi il dj set di Populous sta mandando in delirio i presenti (tra cui anche Max Casacci e Ninja, che però non sono qui in vacanza: a concludere la serata in spiaggia saranno loro in versione elettro con Demonology HiFi, nuova veste artistica dei due Subsonica). Il piccolo stage di Porta San Pietro è ad accesso gratuito, e lungo il Belvedere ai seguaci degli artisti che si esibiscono si sommano curiosi di tutte le età che stanno trascorrendo la serata a passeggio nel centro storico. Una signora imbellettata si avventura fino alla transenna per chiedere informazioni a un addetto alla sicurezza, che se ne sta ad osservare il tutto con espressione incerta tra il perplesso e il compiaciuto. “È un festival musicale, lo fanno da un po’ di anni. In realtà io qua non ho ancora visto un solo strumento, ma che vuole che le dica? Ad esempio ora c’è questo tipo che schiaccia pulsanti e basta, ma a quanto pare ai ragazzi piace così”. Ok, la versione testuale della risposta è in linguaggio locale e decisamente più colorita, ma in ogni caso la dice lunga su un paio di questioni. La prima è la quantità di elettronica che ha riempito Vasto lo scorso weekend (sì, è un festival di musica rock, ma siamo pur sempre nel 2017). La seconda parla di una cittadina che edizione dopo edizione si lascia invadere sempre più volentieri, abbandonando lo scetticismo con cui quattro anni fa accolse gli abitanti di un universo di cui ignorava l’esistenza, quello della musica indipendente. L’onda lunga del Siren Festival è la metamorfosi di un’intera comunità, una provincia che scopre un turismo diverso e grazie ad artisti dai nomi impronunciabili si fa conoscere anche fuori dai confini nazionali.
Scoprire come suona il presente in una location che profuma di storia è un’esperienza possibile in pochi altri luoghi oltre a questo. L’attenzione per le tendenze in atto non toglie però spazio alle performance di artisti collaudati. Una edizione, quella 2017, all’insegna del sintetico ma anche del cantautorato più recente, ricco di artisti che del coniugare le due istanze hanno fatto la propria fortuna. Ma c’è stato modo anche di testare la resa live di un fenomeno che da alcuni mesi si è imposto in terra italica, quello della trap.
A un cartellone ricco di giovani affiliati al songwriting italico si affiancava la certezza data dalla presenza dei Baustelle, ma nonostante una Piazza del Popolo stracolma il live di Bianconi e soci ha finito per collocarsi tra i meno entusiasmanti di questa edizione. Molto più stimolanti si sono rivelati invece i nomi ancora tutti da scoprire, che si sono divisi tra il palco pomeridiano al Lido Sabbia D’Oro e lo stage di Porta San Pietro. La veste live tonifica l’indie pop ispirato e metaforico di Colombre così come la psichedelia retromaniaca di Andrea Laszlo De Simone, rimpolpa la sostanza del chamber pop di Giorgio Poi e ovviamente amplifica le sonorità abrasive dei Gomma (tra i più seguiti, ché mamma V4V Records è tutta vastese e i ragazzi qui sono ormai di casa).
Oltre ai pomeriggi di venerdì e sabato, anche la giornata conclusiva di domenica è stata in spiaggia, dedicata a sonorità altrettanto in voga. La maschera che indossa è sempre quella inconfondibile dei Tre Allegri Ragazzi Morti ma l’eclettico Davide Toffoli è ora impegnato su altri fronti, e all’ironia e ai ritmi caraibici dell’Istituto Italiano di Cumbia è stato impossibile resistere, rimandando la decompressione al lunedì.
Non solo spiaggia: ai Giardini D’Avalos non è mancato il da fare in pomeridiana, tra talk e incontri, e la cornice di vialetti e pergolati di questo giardino alla napoletana è stata perfetta per gustarsi “Quattro Quartetti”, ossia i versi ossessivi di Emidio Clementi in equilibrio precario sulla chitarra di Corrado Nuccini.
Decisamente meno imperturbabile del solito è stato lo sguardo di Clementi quando durante la stessa giornata l’ho incrociato una seconda volta, per caso e in tutt’altro contesto, quello di un main stage preso d’assedio dai ragazzini radunatisi in piazza per Ghali: al di là della distanza che separa le espressività vecchie e nuove, a quanto pare confrontarsi con un fenomeno del genere è d’obbligo per i profani così come lo è per gli addetti ai lavori. E a conti fatti il rapper italo-tunisino ha ripagato la massiccia affluenza con una valida esibizione, con un sound dal respiro internazionale che ha fatto presa anche sui più scettici e attempati e le parentesi in arabo a suggerire che forse è persino un bene che il nuovo idolo di molti adolescenti sia uno che in qualche misura li avvicina a temi ormai necessari come quello dell’integrazione razziale.
Tra gli ospiti internazionali l’elettronica è stata in qualche misura il comun denominatore ma tutte le declinazioni presenti hanno reso il programma piacevolmente variegato: dall’avanguardia d’antan di Richard Kirk fino alle mutazioni genetiche più recenti, come l’elettro folk crepuscolare di Jenny Hval, con l’alt rap sintetico di artisti come Noga Erez e Ghostpoet nel mezzo, e persino le composizioni viscerali degli Arab Strap che non disdegnano la cassa dritta.
È un peccato che l’accesso ai live al Cortile D’Avalos sia stato spesso complicato per chi arrivava a performance già iniziata, perché negli anni passati il ritmo tutt’altro che frenetico è stato tra gli aspetti più apprezzabili della kermesse, senza alcuna necessità di rinunciare al finale di uno dei concerti sui palchi principali per andare a prendere posto in anticipo a quello successivo. È un peccato anche perché la location si conferma essere la più suggestiva, con i visual a far da sfondo sul lato opposto all’ingresso e il suono che si amalgama rimbalzando tra le mura storiche. Poco male essersi persi i californiani Allah-Las, episodio gradevole di morbido psych rock ma senza troppo mordente, ma un paio delle performance che si sono svolte qui si sono rivelate irrinunciabili: la solennità di Kirk in torre di controllo, membro ormai unico dei Cabaret Voltaire, ha reso sferzante ogni decibel, ed è stato catartico perdersi nei lunghi iati strumentali degli Arab Strap, apnee emotive che trasformano ogni sordido spoken di Aidan Moffat in melodia acida e avvolgente.
Le sorprese migliori le ha riservate però il main stage sabato sera, quando la protagonista è stata l’elettronica suonata, con band al completo sia per Ghostpoet prima che per Trentemøller in chiusura. L’energia dark e raffinata dell’artista britannico è stata il vero e proprio innesco della serata, col cantato à la Tricky che sconfinando spesso nel rap personalizza il suo stile da moderno crooner sintetico. Incendiario dall’inizio alla fine il live set di Anders Trentemøller, a dirigere i suoi musicisti dal centro dello stage con la presenza scenica che ci si aspetta da un rocker.
E mentre basso, batteria, chitarre e parentesi cantate saturano la synthwave del multistrumentista danese con le luci glaciali a ritagliare nette le sagome dei performer, ti ritrovi a pensare al fatto che lo stesso artista che ti sta facendo ballare senza sosta poche ore fa l’hai incontrato al Siren Beach, in bermuda, a farsi una birra sotto l’ombrellone come i comuni mortali. E che non ti sarebbe mai accaduto altrove. La musica è ormai di casa sulle coste dell’Adriatico.
[foto di Francesca Santacroce]