Logo dei Ride bianco a caratteri cubitali su sfondo nero. Sei chitarre, strumenti ordinati sul palco. Il messaggio è tanto semplice quanto chiaro: si suona e basta. Siamo alla Santeria e chi ha deciso di non seguire la kermesse sanremese, iniziata proprio mentre venivano fatti gli ultimi ritocchi sull’impianto, è venuto qui a farsi un viaggio nella capsula del tempo. Ed è bastato un tocco dello stage manager sulle corde del basso per scatenare i primi ruggiti di un pubblico che vuole esserci e non solo presenziare.

Tante teste pelate e capelli grigi. Look d’altri tempi, tanto black e pochi cappellini. Sorprendente notare quante tonalità esistano tra il grigio ed il nero simil dark wave. E gli sbadigli delle 22.00. Del resto domani non si va in biblio a baccagliare. Sveglia e caffè; ingellata e si va a travagliare. Qualcuno è già seduto in un angolo prima della fine del gruppo spalla, che poi chi se ne fotte se non sto in prima fila. E l’omino dei fumetti dei Simpsons e “il marito della Franci, che però non è venuta perché era troppo stanca.” Età media molto alta. E in un angolo vicino all’estintore qualcuno sta già simulando slappate e controtempi.

E di fronte, come in uno specchio, i Ride osservano il mondo andare avanti e si mostrano più maturi ma non invecchiati. Cataclismi ed eventi naturalistici che mandano in frantumi città, ma non le montagne che negli anni sono diventate sempre più solide.

L’esibizione è abbastanza statica, ma dritta e potente, nonché mediamente lunga per gli standard attuali. Non si vuole compiacere, o assecondare. Si vuole solo suonare e fare un bel tuffo nello shoegaze più autentico. Quando la band strimpellava per le prime volte Seagull, la Sampdoria si apprestava a vincere il primo scudetto e la Premier League si chiamava ancora First Division. Siamo nella capsula del tempo. Le canzoni sono lunghe. pochi telefoni puntati sul palco.

Ci sono i brani del nuovo album This Is Not a Safe Place che hanno occupato un minutaggio molto alto in tutto il set: Future Love, Jump Jet, Kill Switch, Fifteen Minutes, Shadows Behind, Repetition, End Game, In the Room. Questi momenti che hanno svecchiato un progetto che voleva progredire e non solo riunirsi, avvicinando la band alle sonorità dei New Order, sono intervallati con i classici di Weather Diaries, di Going Blank Again e soprattutto di Nowhere.

E in questo momento il quadro comandi si blocca. Tutto va in panne. Fumo e scintille: sono le 23.23 ed entra Vapour Trail. Non è mai troppo tardi o presto per sentire dal vivo; vale il prezzo del biglietto; eccetera.

Encore con In The Room e la citata Seagull che chiudono un concerto che ha mescolato come nella migliore delle tradizioni della band oxfordiana melodia e chitarroni. Un puzzle ipnotico-sensoriale di momenti e personaggi. Tutto così lontano dal mondo di oggi, ma anche così inevitabile. Come noi davanti ai Radiohead tra vent’anni, con le sorprendenti tonalità tra il grigio ed il nero simil dark wave e gli sbadigli delle 22.00.