Attenzione! Il report che state per leggere è veramente molto lungo. Per chi non se la sentisse, ecco la versione tl;dr
Gli altri proseguano pure.
Stereotipo dice che gli spagnoli siano rilassati e piuttosto disorganizzati, vuoi per il caldo, vuoi per lo stile di vita, vuoi per le tante ragioni di distrazione di cui sono circondati nella loro bella nazione. Fra i tanti esempi che si possono trovare per smentire questo luogo comune, da 15 anni ce n’è uno molto particolare, e si chiama Primavera Sound Festival. 3 giorni e più di concerti immersi nel tepore, nel mare e nello splendore di Barcellona, gestiti con una precisione da fare invidia alla Svizzera. D’altronde non basta improvvisazione e buona volontà per passare in così poco tempo dal piccolo palco con headliner Arman Van Helden (edizione 2001) ai 365 concerti ospitati quest’anno nel Parc Del Fòrum.
Ciao sono di Barcellona e il piano regolatore della mia città prevede un’intera zona costruita a uso festival. Sul mare.
Tutta questa organizzazione ha un sacco di lati positivi, di cui tutti giustamente parlano. È vero, al Primavera non ci sono code (bancomat a parte). È vero, il Primavera è un festival alla portata di tutti, dai bambini alle teste canute, e infatti tutti trovi.
Ma la stessa natura del festival porta anche a qualche inevitabile inconveniente, e anche questi non vi saranno nuovi, perché ugualmente tutti ne parlano. Uno sugli altri, la dispersività dei palchi e le inevitabili sovrapposizioni causate dall’enorme programma, capaci di creare nelle persone più ambiziose (o mitomani) reazioni come ansia, panico da prestazione, perdite di amici, divorzi. Da questo punto di vista a rincarare la dose ci sono quei pochi concerti che, tenendosi nelle location al chiuso come l’Auditorium, vanno prenotati con anticipo, pena l’esclusione.
Come il primo concerto del primo giorno, Panda Bear. E qui inizia la storia del mio festival, con l’arrivo baldanzoso al banchetto dei braccialetti, e il sorriso gentile dell’addetta alla reception che mi dice “¿Panda Bear? ¡Aforo completo!”. Un inizio che poteva gettarmi nello sconforto, ma che invece mi dà l’occasione di riflettere su un’altra grande verità del Primavera: l’impossibilità della copertura totale. E contemporaneamente mi dà tempo di elaborare una soluzione, basata su un altro degli aspetti peculiari del festival, cioè la sicura presenza all’interno dell’area di una moltitudine di amici, conoscenti, parenti che incontrerai raramente (per varie cause già accennate sopra), ma ottima fonte di informazioni nello sventurato caso non ci si fosse ancora dotati del dono dell’ubiquità.
Diamo quindi il via alla sezione “L’angolo dell’amico”, in cui un amico presente mi racconta cosa è successo nei luoghi in cui non c’ero.
Filippo, da Londra, su Panda Bear
“Un’esperienza che definirei ipnotica dal suono, ai visual, passando per il contesto: un auditorium triangolare con soffitto riflettente. Tutti seduti come a teatro alle 5 del pomeriggio, anche se guardandomi alle spalle ho notato come l’esperienza sia stata invece soporifera per alcuni.”
Finalmente dentro, è tempo di calarsi nel vivo del festival. Dopo aver fatto conoscenza con l’area principale e aver superato indenne l’area bancarelle (ma non quella bar), è tempo di andare al Pitchfork Stage dove alle 18 e 30 iniziano i Twerps. Sulla carta una situazione idilliaca: spensierato jangle-pop ad orario aperitivo ottimo per entrare subito nell’atmosfera giusta. Nella realtà, però, tutto è abbastanza rovinato dalle doti vocali non proprio eccelse dei due cantanti. Il risultato? Quello di farli sembrare una cover band alle prime armi della loro versione su disco.
Subito dopo, una bella scoperta. È Yasmin Hamdan, che andiamo a sentire incuriositi dalla descrizione che ne fa la cartella stampa, dove si parla di un “mix di influenze orientali (è del Libano), musica elettronica e aspirazioni cantautoriali”. Mai cartella stampa fu più precisa, per una performance in cui si passa in un attimo da inebrianti melodie arabe a scatti di aggressività degni di una St. Vincent.
Prima corsetta del giorno e si torna di nuovo al Pitchfork dove stanno per salire sul palco i Viet Cong, davanti a un pubblico che inizia a farsi molto più numeroso. Si capisce anche il perché: sono uno dei nomi più chiacchierati dell’anno, e live vanno spediti come neanche i tori a Pamplona. Unico difetto è forse la mancanza di varietà, ma se il loro post-punk piace, il difetto può anche diventare un pregio.
Si rifiata un attimo prima di intraprendere la traversata dell’intera area festival per raggiungere il Primavera Stage, uno dei due grandi palchi della manifestazione. Qui a spezzare nuovamente il fiato ci pensano i Replacements, che con Takin a Ride fanno subito capire che a dispetto dell’aspetto e dell’età hanno ancora molta energia da dare e molte lezioni da insegnare. Il loro è un set scatenato fra punk e rock’n’roll, impreziosito da qualche cover assolutamente godibile come Maybelline di Chuck Berry e I Want You Back dei Jackson 5, e che raggiunge il climax con la loro hit Bastards of Young.
Ho prima parlato delle scelte a cui inevitabilmente il Primavera ti mette davanti. Eccone una: da una parte la doppia combinazione hype+emo di Kelela seguita dai Brand New, dall’altra uno dei concerti che le voci di corridoio dicono sarà fra i più spettacolari dei 3 giorni, ovvero Anthony and the Johnsons accompagnato sul palco da una intera orchestra e da un’altra ancora la reunion degli Spiritualized. Che fare? Ovviamente intraprendere la scelta impopolare di hype+emo, che però regala ottime soddisfazioni. Kelela risulta una specie di ibrido fra Fka Twigs e Jamie XX, e sul palco cerca di replicare l’effetto tipico dei suoi video con una serie di giochi di luci e movenze studiatissime, a metà fra il sensuale e l’inquietante. I Brand New, fra il chitarrista prestigiatore, le doppie batterie precise come metronomi e il cantante che urla con sguaiata grazia mi fanno tornare alla mente quando ero un adolescente problematico della east coast americana (cosa che non è mai successa, tra l’altro).
In piena botta ormonale mi trascino nuovamente dalla parte opposta del Forum, convinto di potermi godere da vicino un’altra delle band più attese del giorno: i Black Keys. Povero illuso. A 10 minuti dall’inizio del live, la platea di fronte al palco è un muro invalicabile di persone dalla densità di una metropolitana 5 minuti prima dell’inizio di uno sciopero: praticamente siamo costretti a vedere il loro concerto ad altezza Ibiza. Poco male, all’aperto i Black Keys risultano molto meno trascinanti che in un palazzetto (complice anche l’acustica non proprio al massimo) e faticano a smuovere i tanti presenti. Certo, Tighten Up e Lonely Boy riescono in questo compito, ma di certo non sono state esibizioni come questa a creare la reputazione dei due dell’Ohio.
Foto scattata con il telescopio spaziale Hubble
È il momento di trasferirsi a Ibiza, non più geograficamente ma metaforicamente: dopo l’ennesima, lunga traversata arriviamo sotto al palco dei Simian Mobile Disco. Un set onesto, nulla più, con nessuna delle grandi hit di (ormai parecchi) anni fa ma che comunque è un piacevole modo di prepararsi ai Jungle. Il concerto delle 3 di notte al RayBan Stage: diventa chiaro da subito che, nel bene o nel male, è questo l’appuntamento immancabile di buona parte del pubblico del Primavera. L’arena è piena da ogni parte, dalla platea alle gradinate, per un live che forse rappresenta la definitiva consacrazione della band inglese al di fuori dei confini patri. Inizio trionfale in stile Morricone, coreografie coinvolgenti, un’unica, bellissima canzone tutta uguale lunga un’ora. Ottimo modo per concludere il primo giorno del Primavera, non dopo essere stati accompagnati a casa da un tassista strozzino dalle doti argomentative ineccepibili, riassumibili in un “Se non mi pagate tutti i soldi che decido io, vi lascio qui a vagare nel girone infernale di chi attende l’apertura della metro”.
Il secondo giorno inizia con una buona dose di relax, complice la scoperta del palco Els Vermuts del Primavera, situato in mezzo al Parc de la Ciutadela nel pieno centro di Barcellona. Qui, fra un venditore abusivo di Mojito e una Sangria più tossica di un’arancia ripiena di colla, si possono ascoltare alcune delle band minori della giornata precedente, in un’atmosfera tranquilla e inusuale. Io faccio il mio secondo incontro con i Twerps, che qui si presentano molto a loro agio e, complice forse una dimensione più adatta, anche le loro voci sembrano essere migliorate nella notte.
Tempo di darsi una parvenza di presentabilità e si è subito pronti per tornare verso il Forum. Anche perché qui ci aspetta uno dei personaggi più amati e criticati della scena musicale recente. Ovviamente sto parlando di Julian Casablancas. Che si presenta così:
Il figlio illegittimo fra Jem delle Hologram e Mad Max
Ad accompagnarlo i Voidz, un gruppo che a vederlo sta a metà fra un’orchestra tzigana e i Gogol Bordello. Aggiungiamoci in più che Julian non canta, ma emette rumori cacofonici su delle canzoni goffe e sconclusionate che vagamente ricordano il suo gruppo originale, e il risultato è che sembra si di trovarsi di fronte agli Strokes. Però quelli bulgari. Senza voler mancare di rispetto alla scena musicale bulgara, che sicuramente vanta realtà più talentuose di quella appena vista sul palco (e no Julian, il fuck you rivolto al pubblico uscendo di scena con tanto di lancio del microfono di certo non migliora la situazione).
I Voidz. Reptilia, Rum Casusu Çikti
Per fortuna nel palco speculare a quello dei Voidz sta per iniziare Patti Smith, che in un attimo mi fa tornare fiducia nell’umanità. Lei a dire il vero di fiducia nell’umanità deve averne proprio tanta, infatti costella l’esibizione integrale dell’album Horses con una serie di inviti splendidamente sixties a combattere per un mondo migliore, spronando i giovani presenti alla ribellione ripetendo incessantemente le parole “You are the future!”. Il tutto senza mai neanche sfiorare la pericolosa zona primomaggismo, ma anzi risultando proprio ispirante. Sarà la sua credibilità, la sua innegabile bravura, quel profumo di Podèmos che gira per la città, ma usciti dal suo concerto ci si sente rigenerati e svuotati da quell’atteggiamento cinico verso il mondo così tipicamente contemporaneo. Un risultato niente male, per una ragazza di 68 anni.
A mantenere invariate le buone vibrazioni (spirito anni ’60 esci da me) ci pensano i Belle and Sebastian, strategicamente piazzati sul Palco ATP, quello con davanti una collinetta erbosa che sembra proprio l’ideale per vedersi l’esibizione degli scozzesi mentre ci si riscalda con qualche bevanda tonificante (che dite? Che ci sono 25 gradi e nessun bisogno di riscaldarsi? Perché puntualizzare?). Il loro repertorio è un bel mix fra il vecchio e il nuovo, con il nuovo che, com’era prevedibile, riscuote molto meno successo del vecchio (gli highlight personali? Piazza, New York Catcher e la sempre buffa I’m a Cuckoo). Rotolati giù dalla collina si arriva diretti al piccolo Adidas Stage per vedere, in nome dello spirito adolescenziale risvegliato il giorno precedente dai Brand New, un’altra esibizione sul genere, quella degli Hotelier. Tutto divertente, semplice, a volte anche troppo. Potrei direi che i Brand New stanno al disagio adolescenziale come gli Hotelier stanno a Stiffler di American Pie, e non va presa per forza come una critica.
Dopo essersi velocemente rifocillati con in sottofondo una rumorosissima Pharmakon è di nuovo il momento delle scelte: chi vincerà stavolta, i Ride, Run The Jewels o Ariel Pink? Vincono i Run The Jewels, e anche stavolta mi sento ripagato. Una delle più belle esibizioni della giornata, un concerto esplosivo che va ben oltre il rap ed è infatti seguito da una folla che di certo non si limita agli appassionati del genere. Attualmente i Run The Jewels possono permettersi praticamente tutto, e tutto gli riesce clamorosamente bene. Pensate che sia impossibile chiamare fuori vostra moglie per fare si che tutto il pubblico del concerto le canti “Happy Birthday” senza risultare un po’ stucchevoli? Bene, Killer Mike l’ha fatto, e l’ha fatto sembrare una figata.
“Certo che saltare Ariel Pink”, dirà qualcuno. È vero, ma ripeto, sono scelte difficili. È per questo che mi pare il momento giusto di riaprire la sezione “L’angolo dell’amico” per sentire com’è andata.
Giuseppe, da Pavia, su Ariel Pink:
“Per fare il soundcheck c’è voluto un po’, è una band cosi assurda che metterli tutti d’accordo è stato uno show nello show. Quanto al resto, sono dei pazzi (in senso buonissimo). Tutine, un look da veri deficienti di una volta, con tanto di spogliarello del batterista. Una performance nel complesso ottima.”
Nuovo trasferimento, nuovo dilemma: da una parte Death From Above 1979 più Jon Hopkins, dall’altra Alt-J, piazzati esattamente a metà fra i due nomi precedenti, per di più in un palco a distanza improponibile. Stesso palco del concerto dei Black Keys oltretutto, di cui non ho proprio un bel ricordo. Per questo decido per l’opzione uno e in poco mi ritrovo nelle prime file dei DFA, di certo non famosi per le performance tranquille e riposanti. Quella di stasera non fa eccezione e anche in un festival con un pubblico di solito poco turbolento come il Primavera riescono a creare una situazione invivibile e bellissima.
Subito dopo Jon Hopkins: visto in precedenza mi aveva incantato anche e soprattutto grazie ai visual che lo accompagnano, perfettamente studiati sulla sua musica, qui, in un luogo meno totalizzante per i sensi come quello di un palco all’aperto, fa la saggia mossa di costruire un vero e proprio spettacolo di coreografie capace di rapire l’attenzione anche delle persone più lontane dagli schermi. Questa grazie a un corpo di ballo fluo che, ancora una volta, aggiunge molto ai suoi già impeccabili pezzi. E se qualcuno fosse curioso lo stesso di sapere com’è stata l’esibizione degli Alt-J, ecco “l’angolo dell’amico”:
Chiara, da Pordenone, sugli Alt-J:
“La musica perfetta per il mio trip da acidi”.
Suppongo sia stato bello anche da quelle parti.
Sono le 3: è il momento del Rayban Stage! Oggi ospita i Ratatat, e si presenta di nuovo stracolmo. A loro bastano due canzoni per far venire voglia di ballare tutti, Loud Pipes è un trionfo, così come la nuova Cream on Chrome e Wildcat. Un’altra delle sorprese di giornata, soprattutto per come riescono a riempire di energia pezzi che, ascoltati su disco, possono piacere ma di certo non fanno saltare sulla sedia in preda a un trasporto incontrollabile.
Ma non è ancora finita. Bisogna aspettare le 4 per ascoltare gli autori di un altro grande album di quest’anno: i Soft Moon. Psichedelia perfettamente mescolata con l’elettronica, suoni potentissimi e affilati, voci possenti, ritmo tirato, luci da epilessia. Il risultato è che una ragazza si sente male e il concerto si interrompe in anticipo, spedendo tutti a casa un paio di canzoni prima del previsto.
Giorno 3: si inizia ad accusare un po’ di naturale stanchezza, e ci si ricorda che a Barcellona c’è il mare (nonché un’invasione di baschi ubriachi e festanti, in città per la finale serale di Copa del Rey). Il risultato è che l’orario di arrivo si sposta un po’ più avanti, sacrificando alcuni concerti che si sarebbero voluti vedere come i Diiv (prontamente recuperati pochi giorni dopo all’Handmade Festival), ma entrando comunque in tempo per Mac DeMarco e Tori Amos. Il primo è ormai una certezza, ed è impressionante vedere come riesca a gestire un pubblico enorme come se stesse suonando per un gruppo di amici nel giardino della sua casetta in Canada. Questa volta, oltre all’inevitabile buonumore, regala anche qualcosa di inaspettato e che strappa molti sorrisi: una cover di Yellow dei Coldplay un po’ sbilenca e fattona, perfettamente in linea con tutto il suo stile. Meno coinvolgente Tori Amos. Dotata di una voce gorgheggiante quasi aliena, di un organo e di un pianoforte a coda, è sicuramente un’artista di gran livello, ma insomma, dopo 3 canzoni si presenta la strisciante sensazione di trovarsi davanti a Bjork a cui hanno rubato il computer, e la cosa ci fa desistere dal proseguire.
Per riprenderci decidiamo di avere bisogno di un po’ di sana ignoranza in salsa inglese: esiste qualcuno in grado di dartene in quantità maggiore di Sleaford Mods e la sua performance electro-punk-grime caciarona cantata con un terrificante accento di Nottingham? Lui è quello che canta nell’ultimo singolo dei Prodigy, e sembra una versione più demente di The Streets. In realtà non è neanche un lui, ma un loro: sul palco sono in due, ma l’unico compito del secondo è quello di premere un bottone per far partire la base e poi rimanere sul palco a fare niente se non muoversi in maniera svogliata e sincopata con un’immancabile birra appoggiata sul pacco. Una personaggio che sembra un perfetto incrocio fra Jay e Silent Bob di Clerks e il nostrano Mauro Repetto. Sicuramente un’esperienza.
La maglietta non è la cosa più stupida del personaggio
Così come un’esperienza dev’essere stato il contemporaneo concerto dei Foxygen. Per cui, ancora, “angolo dell’amico”.
Anna, da Londra, sui Foxygen:
“Più che un concerto musicale è stato uno show. Sam France, il cantante, aveva grossi problemi con il vestito. Forse era troppo stretto o forse faceva troppo caldo. Piacevoli le scenette con gli altri membri della band tra partite di carte e bicchieri di Jameson bevuti tutti d’un fiato. Non credo facciano cattiva musica, ma purtroppo se li vedi dal vivo le canzoni non te le ricordi perché sei troppo preso da quello che succede sul palco.”
Troppa stupidità ci ha fatto venire fame, e ci rechiamo nella grande tenda centrale che ospita i baracchini del cibo. Scopriamo che in questo momento è indubbiamente questo uno dei posti più frequentati del festival. Il perché lo capiamo presto: è iniziata la finale Barcellona – Atletico Bilbao, e potrebbero anche suonare John Lennon in duetto con Elvis feat. Mozart ma no, un vero Blaugrana sarebbe qui. Non solo, la situazione ci regala anche uno dei boati più convinti dell’intero festival, quando Messi fa questa cosa qui:
Ripartiamo per la lunga marcia verso i palchi principali del festival: hanno iniziato gli Interpol. Ma nell’avvicinarci scatta il fanboysmo, perché a breve gli Strokes suoneranno sul maledetto Primavera stage, quello più invivibile, quello in cui essere lontani equivale a sentire solo il lontano eco di quella band che volevi tanto vedere. Per cui ci si piazza davanti al palco un’ora prima, e di lì non ci si muove. Il lontano eco diventa perciò quello degli Interpol, riesco a percepire ogni tanto qualcosa di riconoscibile, Evil, NYC, Slow Hands, ma il tutto è troppo confuso per cui preferisco lasciare la parola a…
Martina, da Milano, sugli Interpol:
“Mi avevano detto tutti che in concerto non sono poi sto granché, che sono stati rovinati dal successo e dalla figa. Quindi al concerto sono arrivata a dita incrociate. Invece ce l’hanno fatta eccome, speravo tanto suonassero Precipitate, ma alla fine ero soddisfatta anche senza. Non si può avere tutto. Non si possono nemmeno avere i classici saltelli di Daniel Kessler, gli anni passano anche per loro. Comunque bravi, bravissimi, ma non divini.”
Dopo un’ora di sofferenza nella zona sotto al palco, ormai straripante di persone, è il momento di scoprire se tanta attesa sarà ripagata. L’apparizione di Julian nel pomeriggio precedente non fa ben sperare, e ancora meno il ritardo spocchioso con cui salgono sul palco (unico gruppo non in orario in 3 giorni di Primavera, da quel che ho visto). Quando inizio a credere che non usciranno mai, eccoli. Julian si presenta sul palco con addosso la terribile seconda maglia del Barcellona, forse per ingraziarsi il pubblico, forse perché fra droga e adipe in eccesso sta cercando di trasformarsi in Diego Armando Maradona.
La scaletta è perfetta: l’ultimo, non proprio riuscito album è messo da parte ad esclusione di All The Time, il resto delle canzoni copre l’ormai molto più che decennale storia di una band che, come dimostra il trasporto dei fan, che piaccia o no ha segnato un’epoca. È vero, l’interazione con il pubblico è meno che minima, gli Strokes si limitano a snocciolare uno dopo l’altro tutti i loro grandi successi, ma l’interpretazione (nonostante la forma apparentemente precaria di Julian) è impeccabile. Finito il concerto torna la loro spocchia, tutti subito fuori dal palco a esclusione di Fabrizio Moretti che si ferma qualche minuto a salutare le prime file.
Con le poche forze rimaste si torna al RayBan Stage per l’esibizione delle 3, è il momento di Caribou. Folla oceanica e uno spettacolo francamente molto poco coinvolgente. L’idea che mi sono fatto è che Caribou stia diventando per un certo tipo di ambiente l’equivalente della Democrazia Cristiana: tutti lo seguono quasi per dovere liturgico, ma in fondo non convince e diverte quasi nessuno.
La chiusura del festival spetta, come da tradizione, a DJ Coco. A noi non rimane che salutare il Forum, prendere una affollatissima metro e goderci il meritato riposo. Anzi no: perché il Primavera offre ancora un colpo di coda. È quello di domenica sera, quando alla Sala Apolo, in città, salgono sul palco i Thee Oh Sees, regalando a sorpresa un’altra grande esibizione di questa edizione. Praticamente una gara di stage diving a palco aperto, un flusso continuo di persone che si lancia fra le braccia di una folla mai vista così attiva in questi giorni.
È finita, e per il Primavera è l’ennesima conferma. Noi torniamo a casa, dicendo arrivederci a un festival che si può sempre più di diritto considerare fra i più importanti e rilevanti al mondo.
(Un grazie a Majda, Aris, Fede che hanno condiviso i circa 25km al giorno di pellegrinaggi insieme a me; a Giuseppe, Filippo, Anna, Martina, Chiara, gli amici de “l’angolo dell’amico”; e a Dani Cantò, Eric Pàmies e Xarlene, autori delle foto)