Dal 6 al 10 agosto siamo stati ospiti dell’Øyafestivalen, il più importante evento musicale della Norvegia, che quest’anno ha celebrato i suoi primi 20 anni. È la quarta volta che raggiungiamo Oslo per l’occasione e anche questa volta l’opinione più che positiva che abbiamo avuto per le precedenti edizioni non è stata solo riconfermata, ma è finanche migliorata.

Qualche cenno storico: l’Øya ha sostituito il Kalvøya festival – che si è svolto sull’omonima isola dal 1971 al 1997 e ha ospitato artisti del calibro di Frank Zappa, Jackson Browne e Nirvana. La prima edizione dell’Øyafestivalen si è tenuta appunto nel 1999 e, dopo solo due anni, l’esponenziale quanto rapida crescita della manifestazione ha obbligato l’organizzazione a spostare l’evento prima al Middelalderparken e, nel 2014, all’attuale sede del Tøyenparken.

Amfiet, il main stage (credits: Ihne Pedersen)

Il Tøyen è uno dei tanti polmoni verdi della capitale norvegese, ubicato tra il Munch Museet e lo storico giardino Botanisk Hage, nel bel mezzo di Grünerløkka. Il quartiere sorge ad est del fiume Akerselva, in cui è possibile fare un bagno ammirando i “resti” della vecchia Oslo industriale. Grünerløkka è il quartiere più alternativo della capitale norvegese: centro nevralgico della vita notturna, è apprezzato soprattutto per la street-art, bar e club underground, le boutique indipendenti che vendono oggetti di design e abbigliamento vintage e i mercatini dell’usato.
Grazie anche all’indotto del festival, Grünerløkka, che era una delle aree più “difficili” di Oslo, è rinato ed attualmente è una delle zone più ambite per chi sceglie di stabilirsi in città, ma anche per coloro che, oltre a godersi i fiordi, i musei e i mille scorci della capitale vogliono divertirsi.

Il Tøyenparken, per di più, non è solo una elegante gemma verde incastonata tra gli edifici della città, ma può contare anche su un’acustica perfetta, collinette e gradoni, a mo’ di anfiteatro  foderati d’erba, che lo rendono una location decisamente perfetta per i concerti.

Volontari dell’Øyafestivalen (credits: Ihne Pedersen)

A fine 2018 la Commissione Europea ha eletto Oslo European Green Capital 2019; il prestigioso riconoscimento gli è stato conferito grazie alle lungimiranti scelte politiche della classe dirigente e alla sensibilità ecologica dei cittadini, che hanno reso possibile un articolato programma di rinnovamento sostenibile della città: dall’eliminazione delle auto nel centro, alla drastica riduzione di emissioni di CO2, alla costruzione di un aeroporto a impatto zero.

È un traguardo a dir poco notevole per un Paese che dal 1968 in poi ha sfruttato la ricchezza del petrolio per trasformare la propria economia, che, prima della scoperta dei giacimenti, era ancora basata sulla pesca e lo sfruttamento delle foreste. Dopo quarant’anni e più di petrolio, il governo norvegese ha deciso di puntare sulla green economy: basti pensare che il fondo di investimento sovrano della Norvegia – il più grande al mondo per masse gestite, oltre 1000 miliardi di dollari – investirà 1002 miliardi di dollari in infrastrutture e aziende non quotate, impegnate nel settore delle energie rinnovabili.

L’Øyafestivalen è perfettamente in linea con le politiche, statali e locali, in fatto di ecosostenibilità e protezione ambientale. L’impatto ambientale dell’evento è ridotto al minimo ed ogni anno si lavora per migliorarlo. Sono addirittura gli organizzatori del festival a misurare e rendere pubblico l’impatto che questo ha sull’ambiente, mentre le autorità governative e cittadine verificano gli standard ambientali che l’evento è obbligato a rispettare, i quali prevedono: un piano di approvvigionamento di cibo e bevande biologici, un tasso minimo di riciclaggio dei materiali impiegati pari al 74% e l’utilizzo di energie rinnovabili. Quest’anno, ad esempio, uno dei palchi era interamente alimentato da energia fotovoltaica ed è stata abolita da parte dell’organizzazione  la distribuzione delle cerate impermeabili usa e getta.

(credits: Ihne Pedersen)

Lo scorso anno l’Øyafestivalen è stato rilevato dall’americana Superstruct Entertainment che possiede anche il Sónar e il croato Hideout. Tuttavia, l’impianto dell’evento norvegese non è stato stravolto e anche quest’anno, in una location intima e scenografica, oltre ad headliner che potete ritrovare sui palchi principali di festival come Glastonbury, Primavera o Sziget, sono stati fortemente coinvolti e spinti gli artisti più promettenti della scena norvegese.

Il lavoro di scouting e promozione è finanziato dal Ministero della Cultura norvegese ed è svolto dalla fondazione Music Norway. Il progetto, avviato nel 2012 e realizzato con lo scopo di esportare la musica norvegese all’estero, si è rivelato un successo che ha dato rapidamente i primi frutti – un esempio su tutti l’esibizione di Sigrid al Primavera Sound di quest’anno sul palco Pitchfork. 

Inoltre, per il terzo anno consecutivo, la line-up del festival è stata composta per metà da artisti donne e metà uomini, headliner compresi. In questa, come in tante altre iniziative, l’Øya ha fatto scuola: basti pensare che il Primavera Sound solo nel 2019 ha introdotto il cartellone paritario.

6 agosto, giornata inaugurale della ventesima edizione dell’Øyafestivalen, che come di consueto è stata dedicata quasi interamente a musicisti norvegesi. I concerti si sono tenuti in numerosi locali sparsi in tutta la città come lo storico BLÅ, sito sulla sponda ovest dell’Ankerselva, o il Dattera til Hagen dal quale, in pochi minuti, è possibile raggiungere a piedi l’Operahuset, passeggiare sul suo tetto e godersi la vista sul fiordo di Oslo. Tra gli artisti più promettenti dell’Øya Club Tuesday vanno segnalati i Ponette e Musti, che hanno giocato in casa, e Kamara da Bergen.

Amfiet stage (credits: Ihne Pedersen)

I cancelli dell’Øyafestivalen “vero e proprio” si sono spalancati mercoledì 7 agosto e la prima giornata al Tøyenparken, come le tre successive, ha fatto registrare il tutto esaurito.
Il festival ha ospitato quasi 20.000 persone al giorno, e per ognuno dei 4 giorni, l’organizzazione ha messo da parte centinaia di biglietti, in modo da scoraggiare il secondary ticketing.
Molti festival europei non sono ancora riusciti a risolvere i problemi con le code, il cibo scadente, i servizi insufficienti e gli spettatori molesti. All’Øya inconvenienti del genere non sono concepibili, sia per merito della validissima organizzazione che del pubblico – tra i più educati mai visti. Al massimo potrebbe piovere, il che comunque renderebbe tutto più suggestivo, e, nel caso, se non avrete provveduto ad attrezzarvi, nelle aree del festival potrete comprare e/o noleggiare impermeabili e wellingtons.

I Karpe, all’Amfiet, sotto la pioggia (credits: Ihne Pedersen)

La prima giornata è stata la più intensa, per concerti e emozioni provate. Il nostro festival è cominciato col cowboy canadese dalla maschera di latex Orville Peck – dicono sia Daniel Pitout dei Nu Sensae, ma l’indiscrezione non è stata confermata. Il queer countryman che canta di gender minorities ha pubblicato uno dei migliori album d’esordio dell’anno – se ve lo siete perso correre a recuperarlo – e vederlo dal vivo è stato un piacere. Terminata l’esibizione, ci siamo incamminati verso il Fortum Stage per assistere all’imminente live del folletto Connan Mockasin. Uno dei punti di forza dell’Øya è che contiene 6 palchi tutti raggiungibili in qualche minuto e non è necessario  studiare cartine per capire come muoversi. Ed è difficile che non riusciate a trovare posto nei pressi delle transenne, basterà avviarsi poco prima dell’esibizione in programma e solo per i concerti più importanti occorreranno al massimo venti minuti d’anticipo.

Subito dopo Mockasin è stata la volta di Tirzah, che ci ha coccolati fino al concerto di James Blake. Poco prima di esibirsi, l’inglese ha pubblicato il video di Can’t Believe The Way We Flow, brano tratto da Assume Form, e la notizia non ha fatto altro che entusiasmarci ancor di più. Puntuale, ha fatto il suo ingresso sull’Amfiet con indosso una lunghissima mantella smeraldo. Raggiunta la sua postazione, alla sinistra del batterista e del programmatore/chitarrista, ha timidamente salutato il pubblico, si è seduto, è partita Assume Form ed è iniziata la magia. L’eleganza e la maturità raggiunte da Blake negli anni sono spiazzanti e la carica emotiva dei suoi concerti è sempre straordinaria. Il concerto è stata una summa del suo repertorio e Barefoot In The Park feat. Rosalía sembra esser stata scritta per l’Øya. Purtroppo non ha potuto esibirsi quanto avrebbe dovuto e forse avrebbero potuto farlo suonare al tramonto, il concerto sarebbe stato ancora più bello, ma di lì a breve, sullo stesso palco, si sarebbe esibita una delle più importanti band della storia (a breve vi diremo chi).

James Blake, Amfiet (credits: Ihne Pedersen)

Finito il concerto non abbiamo avuto neanche il tempo di smaltire le emozioni provate, di lì a pochi minuti si sarebbero esibiti gli IDLES al Vindfruen, sfortunatamente in contemporanea con Rex Orange County.  L’Øya offre una line-up molto varia: dal pop al black metal, dall’indie alla techno, dal punk all’hip hop, ce n’è per tutti i gusti. Ci siamo sistemati a ridosso delle transenne, consapevoli di ciò che ci aspettava. Il gruppo di Bristol non si è perso in convenevoli, Talbot e i suoi hanno subito messo mano ai ferri generando all’istante un’onda d’urto pazzesca. Il loro concerto è stato istintivo, sgraziato, urlato, brutale, trascinante, toccante. È stato punk. Gli IDLES sono indubbiamente una delle migliori band in circolazione e nonostante un cartellone zeppo di artisti più noti hanno dato vita, insieme alla band che li seguirà, al miglior concerto della ventesima edizione dell’Øyafestivalen.

Joe Talbot e Mark Bowen, voce e chitarra degli IDLES (credits: Ihne Pedersen)

Conclusosi il concerto degli inglesi abbiamo raggiunto per l’ultima volta il main stage, il cui ventre, già tracimante di gente, ha iniziato ad affollarsi all’inverosimile per uno degli eventi più attesi dell’intero festival. Alle 20.45 spaccate infatti Robert Smith ha varcato la soglia dell’Amfiet seguito dagli altri membri della band. Mentre il leader dei Cure raggiungeva il lato opposto del palco, sono partite le prime note di Plainsong e in un baleno è stata pelle d’oca.
È stato un concerto speciale per diverse ragioni: la band di Crawley entro dicembre pubblicherà il nuovo album e, sempre quest’anno, celebra i 30 anni dalla pubblicazione di Disintegration. E per riuscire a portare in scena uno spettacolo degno dell’occasione, i Cure hanno esplicitamente richiesto agli organizzatori dell’Øya – che inizialmente avevano intenzione di farli esibire per un’ora e mezza – di suonare per almeno due ore. La richiesta di Smith e soci è stata accolta e hanno potuto dar vita ad un concerto di più di due ore ed un quarto, suonando ben 27 brani. Sono state eseguite Picture of You, A Night Like This, Lovesong, Fascination Street, In Between Days, Just Like Heaven, A Forest, Disintegration e tanti altri brani che hanno segnato la carriera del gruppo.

Nonostante ami i Cure, temevo di assistere ad uno spettacolo degno del Madame Tussauds ma, nonostante gli inevitabili segni dell’età, Robert Smith e la band erano in splendida forma. La prima parte del concerto è volata e il cantante ha concesso solo qualche timido sorriso al pubblico, ma nel reprise si è sciolto, scambiando anche qualche battuta con la folla. Il concerto si è concluso alle 23.00 con Boys Don’t Cry ed in molti hanno versato qualche lacrima.

The Cure, Amfiet stage (credits: Ihne Pedersen)

All’Øya i concerti iniziano alle 14.00 e terminano alle 23.00, perché il festival si tiene in pieno centro città e i regolamenti comunali non ammettono eccezioni. Ma ciò permette a chi lavora e a chi decide di portare i bambini al festival di non perdere nessuna esibizione e non sfianca i turisti, che hanno tutto il tempo di riprendersi dalle fatiche della giornata precedente e visitare la capitale norvegese.

E chi ha ancora voglia di ballare o cantare può continuare a divertirsi prendendo parte ad uno dei tanti sotto-eventi che fanno capo al festival, ospitati dai migliori club della città. Quest’anno all’Øyanatt era presenti Daughters, Orville Peck (che come già detto si è esibito anche al festival), Bloody Beetroots e tanti altri.

Øyanatt, i Daughters sul palco del BLÅ (credits: Ihne Pedersen)

Il ruolino di marcia  della seconda giornata di festival è stato ricco di concerti, quasi come quella che l’ha preceduta. Prima l’esibizione dei norvegesi I Was A King, poi tutti d’un fiato Earl Sweatshirt, Pond, Mitski, SigridFontaines D.C. che hanno fatto saltare in aria il Fortum, ed infine Erykah Badu.

La giornata si è conclusa con uno degli headliner più attesi: i Tame Impala (e abbiamo anche avuto il piacere di assistere al live insieme all’unico componente italiano dell’organizzazione dell’Øyafestivalen). La band di Perth è in procinto di rilasciare il nuovo album, dal quale sono stati già estratti i singoli Patience e Borderline, entrambi suonati ad Oslo. Il concerto è cresciuto a dismisura dopo la prima metà, anche grazie al calare della notte che reso più evidenti i lisergici giochi di luce provenienti direttamente dai 70’s.  Diversi pezzi hanno sfiorato i 10 minuti e per tale ragione ne sono stati suonati “soltanto” 13. L’apoteosi è stata raggiunta con ElephantFeels Like We Only Go Backwards e soprattutto Eventually, di gran lunga il brano più coinvolgente.

Tame Impala, Amfiet (credits: Ihne Pedersen)

Il penultimo giorno di festival è iniziato con lo psych-pop dei Misty Coast, subito dopo Big Thief con una Adrianne Lenker sempre immensa e quindi Soccer Mommy, con la quale abbiamo scambiato qualche parola nel backstage prima dell’esibizione. Alle 17.45 si sarebbe dovuto esibire Yves Tumor, ma qualche ora prima del concerto la direzione dell’evento ha reso noto che il concerto era stato annullato a causa della cancellazione del volo dell’americano. La curiosità di vederlo dal vivo era tanta, ma non ci siamo fatti prendere dallo sconforto e così abbiamo deciso di andare ad ascoltare girl in red. La promettente artista norvegese è stata una piacevole scoperta, ma la più grande sorpresa di giornata è stato il concerto di Christine and the Queens.

Christine and the Queens, Amfiet (credits: Ihne Pedersen)

Adelaïde Letissier, meglio conosciuta come Chris, è una cantautrice, pianista e ballerina francese. Dopo un viaggio a Londra nel 2010 ha aggiunto al suo moniker le parole “and the Queens”, in omaggio ai musicisti drag queen che l’hanno prima ispirata e poi accompagnata nei suoi primi concerti. Il suo è stato un concerto politico, provocatorio e carismatico e subito dopo il primo brano Chris ha urlato al pubblico: “This is a safe space, you can be who you want to be”.
Il synth-pop di Christine and the Queens, definito dalla stessa french-disco, è tanto denso di significato quanto coinvolgente e visivamente lo spettacolo è formidabile grazie alla scenografia urban e alle coreografie della francese e dell’androgina compagnia di ballo. Lo spettacolo do Adelaïde e del suo corpo di ballo ha unito musica, arte, fotografia e live performance attestandosi fra le migliori esibizioni di questa edizione dell’Øya.

Dopo un salto al Klubben per Laurel Halo, la giornata del 9 agosto si è chiusa con il concerto della regina dell’elettro-pop scandinavo Robyn, che ha suonato in contemporanea al trapper Unge Ferrari. La svedese, sicura e sensuale, ha entusiasmato il pubblico dell’Amfiet tanto da fargli cantare buona parte di Dancing On My Own a cappella. Una garanzia per gli amanti del pop.

Robyn, main stage (credits: Ihne Pedersen)

10 agosto, quarta ed ultima giornata, segnata da un temporale che ha iniziato ad imperversare su Oslo dalle prime luci dell’alba. Fino a quel momento il cielo era stato indulgente, ma ha poi deciso di farci provare l’ebbrezza dei concerti tra la pioggia ed il fango. Le avverse condizioni climatiche, però, non hanno sconquassato la perfetta organizzazione della manifestazione e neppure scoraggiato gli oltre 17.000 spettatori che, dal primo all’ultimo concerto, zuppi dalla testa ai piedi, hanno affollato ogni palco del festival.

La nostra giornata di concerti è stata inaugurata dai Parcels agghindati come i Beatles dell’ultimo periodo, per poi passare  dalle sorprendenti Ora the Molecule e subito dopo slowthai. Il moniker del rapper di Northampton prende spunto dal soprannome affibbiatogli da bambino a causa della timidezza e dei problemi di pronuncia che lo facevano parlare a fatica. Ma con i suoi brani diretti e grintosi, con cui di frequente si è schierato contro la Brexit e Theresa May, si è lasciato alle spalle le sue debolezze. La rabbia di slowthai non è un capriccio: i suoi versi sono intelligenti, crudi e attuali. E dal vivo Tyron si è rivelato una macchina da guerra (unico appunto: magari avrebbe potuto parlare di meno e cantarci qualche pezzo in più).

slowthai, Vindfruen stage (credits: Ihne Pedersen)

Il festival non era ancora finito e la malinconia già stava montando. In programma, tra i tanti, c’erano Jonathan Wilson, Ezra Collective, Black MIDI, Pom Poko, Lena Willikens e Stereolab. E così, nonostante la pioggia incessante e qualche sovrapposizione, abbiamo iniziato a far la spola da un palco all’altro per cercare di non perdere nessuno degli artisti citati.

Terminato il divertente tour de force e salutati colleghi e organizzatori conosciuti nel corso della manifestazione, siamo andati ad agguantarci un posto all’Amfiet per il concerto dei Karpe. Magdi Omar Ytreeide Abdelmaguid Chirag Rashmikant Patel sono osannati in Norvegia, tant’è che dopo il loro annuncio i biglietti della quarta giornata di festival sono terminati ancor prima di quelli in vendita per i Cure e Tame Impala. Lo show del duo hip hop originario di Oslo non ha deluso le aspettative, sia musicalmente che scenograficamente. Per l’occasione è stata montata una passerella davanti al palco principale che a tratti sembrava troppo piccolo per contenerli.

Ma oltre ai Karpe era in programma anche il concerto dei Motorpsycho. L’occasione di vedere gli hardrocker psichedelici di Trondheim esibirsi nel loro Paese era troppo ghiotta per farsela scappare. E così, dopo un’ora in compagnia dei Karpe, ci siamo diretti verso il Sirkus, lo stage gemello dell’Amfiet al coperto, per assistere al nostro ultimo concerto.

Karpe, Amfiet stage (credits: Ihne Pedersen)

I Motorpsycho, senza ombra di dubbio, sono la band rock più importante e singolare della Norvegia. La loro carriera è stata contrassegnata dalla maestria nell’armonizzare suoni potenti e virtuosistiche digressioni strumentali di matrice psichedelica. Il trio, attualmente formato da Hans Magnus Ryan, Bent Sæther, Tomas Järmyr, negli anni è stato in grado di muoversi anche al di fuori della propria comfort zone e dall’ingresso nella formazione nel 2017 del nuovo batterista (Järmyr) ha dato il via ad un nuovo capitolo della sua storia (pubblicando The Tower nel 2017 e The Crucible nel 2019) ispirato ai dipinti di Håkon Gullvågs.

Per il concerto conclusivo della ventesima edizione dell’Øyafestivalen, ai Motorpsycho è stato commissionato nuovo materiale, sempre ispirato ai lavori di Gullvågs e portato in scena soltanto ad Oslo. Al progetto hanno preso parte anche Ola KvernbergLars Horntveth e la video artist Boya Bøckman che ha realizzato i visual dello show. La performance è stata ragguardevole: le sonorità prog-metal caratteristiche della band sono state scortate da divagazioni psichedeliche, epic metal, stoner rock e free jazz. Non è stato di certo un concerto “facile”, i Motorpsycho non possono essere ascoltati distrattamente e forse sarebbe stato più opportuno farli esibire all’Amfiet in modo da permettere agli spettatori di potersi sedere sui gradoni della collina. Ma col senno di poi, il tendone del Sirkus ci ha protetti dalla pioggia che sicuramente ci avrebbe distratti.

Motorpsycho, Sirkus stage (credits: Ihne Pedersen)

Alle 23.00 in punto è calato il sipario sull’Øyafestivalen e i Motorpsycho sono svaniti nel fumo come una nave vichinga avvolta dalla nebbia dei freddi mari del nord.
La 20ª edizione del maggiore festival norvegese ha dato sfoggio di tutta l’esperienza e le competenze che l’organizzazione ha acquisito nel corso degli anni. Nonostante l’Øya debba essere inquadrato nella categoria dei festival medio-grandi – solo perché non accostabile per dimensioni e capienza ai giganti del settore – è comunque uno dei festival più all’avanguardia e a misura d’uomo del mondo. Le innovazioni introdotte in soli venti anni di vita sono innumerevoli e spesso sono state adottate dai competitor più grandi solo dopo che ad Oslo sono diventate la prassi.

L’Øyafestivalen, a differenza di quel che accade dalle nostre parti, è fortemente sostenuto dalle autorità statali e locali che sono ben edotte del ritorno culturale ed economico che un evento del genere può produrre. Grazie a questo mix di forze, i norvegesi hanno dato vita una manifestazione che non ha eguali per via dell’atmosfera serena, dell’organizzazione impeccabile, delle attenzioni rivolte al pubblico e di quella sensazione di speranza e fiducia nel genere umano che in questo delicato contesto storico, culturale e politico permette ancora di guardare al futuro pensandolo migliore del presente.

Di seguito una selezione dei migliori momenti della ventesima edizione dell’Øyafestivalen.
Tutte le fotografie sono di Ihne Pedersen.