Quando si sceglie di andare all’Øyafestivalen di Oslo, si poggia la mano sulla maniglia di una porta di un’elegante casa in legno locale, che una volta girata aprirà la vista su un mondo nuovo e su un inesplorato concetto di intrattenimento musicale. I chilometri percorsi tra i festival di mezza Europa non conteranno più. Nascosta tra i fiordi e la vegetazione boscosa c’è un’oasi verde che ha il calore del rifugio dopo una faticosa scalata, alla quale anche il più esperto tra gli alpinisti non potrà che rivolgere lo sguardo con gli occhi pieni di stupore.

Fuor di metafora, il festival, inaugurato nel 1999, è ormai uno dei punti fermi della città che, una volta abbandonato il lungo inverno, rinasce allo spuntar del primo sole. Negli anni la location è cambiata ed oggi ha trovato stabile asilo a Tøyenparken, parco incastrato tra il Munch Museet ed il famoso giardino botanico (Botanisk Hage) nella zona Est della città, ma comunque in centro. Già questo aspetto dà la misura dell’interesse dell’intera comunità norvegese (privata e pubblica) per questi 4 giorni di musica e del rispetto che i cittadini riservano a questi luoghi. Un evento che ormai è abituato ai sold out (quest’anno si sono raccolti in circa 85.000) e che lascia indisturbate le opere d’arte del maestro norvegese o intaccato il giardino adibito ad orto nel 1814.

Dire che vi è interesse sia del privato che del pubblico significa che le attività private (dalla ristorazione, allo svago; dal service al booking) sono seriamente considerate e supportate attraverso le sovvenzioni dagli organi locali e statali, che non vivono questi fenomeni con disinteresse, ma al contrario sono ben consapevoli delle diverse opportunità che ne scaturiscono e della ricchezza che possono generare. Inoltre, l’intervento statale e l’educazione norvegese permettono di dare un colore completamente diverso a questo genere di rassegne, le cui location non assumono le fattezze di balere post belliche derivanti dalla tendenza al risparmio e dalla speculazione. In senso sinestetico, sicuramente domina il verde che contraddistingue l’intera filosofia del festival in un paese a disboscamento zero. Eco-empatia e cultura ecologica spinta ad un livello così estremo che porta decine e decine di zelanti (volontari) adolescenti e bambini delle scuole elementari ad affaccendarsi per tenere l’area completamente pulita.

L’altro aspetto di notevole importanza riguarda – va da sé – l’offerta musicale. Oltre agli headliner – che non fanno invidia a quelli di Sziget, Primavera Sound e compagnia cantante – metà festival è dedicato alla promozione della musica norvegese. Di questo aspetto se ne occupa, in particolare, la società Music Norway che, anche grazie al finanziamento del Ministero della Cultura, arricchisce annualmente un evento già carico di star di altissimo profilo, con artisti della scena norvegese noti ed emergenti ed amministra le sovvenzioni aggiuntive attraverso programmi di supporto dell’organizzazione.

I progetti de quo sono di livello certamente competitivo ed allineato sulle sonorità e sugli stili già presenti in Europa e vengono esportati con successo in diversi paesi nel mondo già da tempo. Il pop coloratissimo di Sigrid, il post punk di Pom Poko, il folk di Darling WestNils Bech già sotto DFA Records col suo stile blakeiano o ancora il classico romanticismo scandinavo dei Verdensrommet (Vibbefanger). Infine da segnalare sicuramente Billie Van (Braveheart Records) con Mikhael Paskalev (PrettyBoyFloyd/Universal) vere e proprie divinità locali e Ponette (NO FOREVERS) che abbiamo ascoltato proprio nel Day 0 di Øya.

Proprio sulla scorta di quanto detto, il festival offre anche diversi altri sotto-eventi che si svolgono specialmente il giorno prima dell’apertura ufficiale e che interessano una dozzina di club/locali/bar disseminati per tutto il centro città. Si va dal più noto BLÅ, accanto alle rive del fiume nel tipico quartiere riqualificato, o il Dattera til Hagen nel quartiere etnico. Quest’ultimo, in particolare, ha inaugurato il nostro viaggio ed in questo cortile abbiamo sentito le prime band proprio accanto ai mercati delle comunità nordafricane e mediorientali: Verdensrommet Ponette. La sera, invece, l’abbiamo passata al Parkteatret, uno dei locali più noti di Oslo (con in cartello Com Truise e Mount Kimbie nei prossimi mesi), dove è stata la volta del rock HAIM-oriented di Thea & The Wild, a quanto pare amatissima in città.

Ponette

E così è arrivato il primo giorno.

La partenza non è stata certamente beneaugurante poiché che a poche ore dall’inizio dei concerti si è scatenato un potente nubifragio, come se i leggendari dei della mitologia norrena avessero deciso di sfogare tutta la propria ira su Oslo. Ma questo non ha sconvolto i piani né degli artisti, né tantomeno degli spettatori che hanno imbracciato mantelle e stivali colorati (acquistabili a cifre irrisorie all’ingresso) e si sono gettati in transenna come se l’apocalisse non fosse altro che un leggero solletico.

E come d’incanto, sono cessati i tuoni, proprio per i live nell’arena centrale (Amfiet) di Migos prima e Lana Del Rey poi. Live estremamente diversi tra loro ma accomunati dall’impatto sul pubblico. Il primo, quello di Migos, ad ogni drop ha rischiato di far venir giù tutte le impalcature e ha confermato l’interesse dei più giovani per l’area rap/hip hop, che ha anche finalmente fatto breccia anche sui più agée e che ormai riempie buona parte della line up dell’intero festival. Il secondo, quello di Lana Del Rey ha lasciato la folla parecchio soddisfatta per uno show di profilo indubbiamente slow/malinconico, ma che non ha registrato strafalcioni vocali dell’artista americana la quale, al contrario, ha tenuto ogni nota, dalla più bassa alla più alta. In mezzo uno sfortunato Danny Brown, l’unico che nei fatti ha dovuto fare i conti con la pioggia, ma che ha ugualmente caricato i più temerari (a centinaia) con i pezzi di Atrocity Exhibition.

Migos

Il secondo giorno è stato all’insegna del sole e della calda estate di Oslo ed i suoi 22/23 gradi.

E quando si tira in ballo il sole non si può che parlare di Mac DeMarco, che si è esibito al palco Vindfruen nel suo orario migliore, proprio mentre il sole iniziava a calare. E qui ha offerto uno dei suoi migliori concerti, riuscendo a bilanciare (contrariamente all’esibizione del Primavera Sound) il tasso alcolemico con il mestiere. A differenza di Feist (sentita poco prima nella sua più tragica giornata no), Mac ha non solo inebriato il pubblico con impeccabili esecuzioni, ma ha definitivamente travolto tutti con il momento cover: A Thousand Miles di Vanessa Carlton, Plastic Dreams di Jaydee ed un assurdo bridge di Still Togheter eseguito con Tequila dei Ventures che ha fatto impazzire ed allo stesso tempo sconvolto i giovani norvegesi presenti. Subito dopo, The xx che sul palco riescono ancora a mantenere quello stesso sentimento – autentico e rudimentale – che hanno offerto quantomeno nei primi 2 anni di carriera. Ciò dovuto anche ad un impianto che nel palco centrale Amfiet ne ha tramortiti a decine. Mentre le prime ore della giornata sono state aperte dal live di Sampha che finalmente sta iniziando a portare sul palco con una certa costanza il suo Process. Per l’occasione ha mescolato le sue molteplici virtù, canore e strumentali, alternando estrema accuratezza al piano e beat danzerecci.

Mac DeMarco

Il secondo giorno di festival è anche il giorno degli “after” nei club del centro – virgolette d’obbligo perchè ad Oslo gli after iniziano alle 23.30. Qui ci siamo alternati tra due live ugualmente elegantissimi ma in assoluta antitesi tra di loro ed ai quali non si può che riservare un 9 pieno. Perfume Genius al John Dee e Dam Funk al Sentrum Scene. Su Perfume Genius si sono scritte pagine e pagine di letteratura e qui non si può far altro che ribadire che quando lo si ascolta e lo si osserva occorre legarsi all’albero maestro della propria imbarcazione per non venirne rapiti. Una performance magistrale offerta davanti ad un centinaio di fortunati che sono riusciti a registrarsi per l’evento e che hanno alternato lacrimoni da film drammatico a silenzi assordanti.

Perfume Genius

Menzione d’onore anche per l’ouverture della serata del norvegese Jakob Ogawa sul quale puntiamo forte per le prossimi stagioni e che in futuro farà felice i nostalgici dei Girls.

Quanto a Dam Funk, lui stesso ha affermato:

we are gonna bring the sunshine in Oslo.

E così è stato, grazie alla sua Keytar e ad un’abilita al missaggio ai piatti che ormai è difficile da scovare durante i concerti. Funk e slappate di basso che hanno fatto rimbalzare sui muri anche i più timidi gatti di marmo.

Il terzo giorno, ancora in pienissimo hangover dopo le mirabolanti acrobazie sciorinate con Dam Funk, lo abbiamo passato principalmente ad ascoltare gli headliner con i quali il livello è rimasto certamente altissimo, sebbene con qualche riserva. The Shins (con uno stage incredibilmente pieno fino all’ultimo posto), Angel Olsen e la sua band ed i Pixies, sui quali – purtroppo – occorrerebbe stendere un velo pietoso. Non tanto per la performance, sempre precisa e a tratti radiofonica, ma sul loro modo di vivere una reunion che sembra ormai soltanto un’azienda creata solo per macinar soldi. E poco importa se se ne vanno in giro senza autista, in metro e con gli strumenti in spalla; al netto della freddezza norvegese è mancato completamente il filo che lega il palco agli spettatori.

The Shins

Sul finire della serata ci siamo spostati in uno stipato Sirkus, dove il norvegese Cashmere Cat ha confermato che quando si gioca in casa i tre punti sono assicurati, avendo tirato fuori un live assurdo dove si sono mescolati pc music, HudMo, EDM da Youtube che ci hanno fatto ripiombare direttamente nel 2010.

L’ultimo giorno, prima dei saluti con gli amici di Visit Oslo (che attualmente è senza dubbio il principale punto di riferimento non solo per gli addetti stampa, ma anche per chi approda per la prima volta in città) ci siamo concessi qualche ora per girovagare qua e là anche nei palchi minori ed in parte dedicandoci anche agli artisti norvegesi.

Ma l’ultimo giorno è stato il banco di prova per alcuni pitchforkiani DOC come BadBadNotGood, Car Seat Headrest e Kelly Lee Owens. Quest’ultima si è esibita nel Hi-Fi Klubben il secondo palco coperto, dedicato al djing e ha regalato un live dallo spirito fisiologicamente berlinese, ma al tempo stesso raffinato. Un particolare commento per i BadBadNotGood che hanno positivamente interpretato il fusion jazz di tendenza, ma che ancora non riescono ad imporsi come vorrebbero (e meriterebbero) sui più giovani, accorsi al Vindfruen forse più per presenziare, che dedicarsi al sax. Discorso opposto per Car Seat Headrest che finalmente ha imparato a far suonare come si deve quella chitarra che a tratti ha pesantemente scosso il fogliame sugli alberi.

Prima di loro è stato il turno della danese MØ che come da copione ha attirato su di sé l’interesse di gran parte dei partecipanti del festival. Un inizio folgorante e qualche piccolo intoppo tecnico del quale non ha risentito minimamente. Anzi, viceversa, l’ora di live si è conclusa con l’unico stage diving della settimana in mezzo ad una marea di adolescenti e bontemponi d’altri tempi in totale estasi.

Prima di andare via, ultimo giro al Sirkus, dove andava in scena Vince Staples. Il rapper californiano è riuscito a diventare un pesce grosso in un piccolo contesto, cantando da un lato il suo passato di Summertime 06 e offrendo i primi spunti di riflessione per quanto riguarda la direzione presa con Big Fish Theory che lo sta portando verso i territori più EDM che garage e che ha ovviamente impattato a 200 all’ora sul pubblico.

Alle 23.00 puntualissime, il festival ha spento le luci e ha dato appuntamento al prossimo anno per una nuova ondata di band e cultura locale. Già pensiamo ai possibili prossimi ospiti, o alle molteplici attività parallele che riempiranno questi giorni totally green che ci hanno dato l’idea di aver fatto parte non di un semplice evento musicale, ma di una comunità. Le dimensioni ridotte della location, che permettono di avvicinarsi in transenna anche pochi minuti prima delle esibizioni, di mangiare senza sentirsi all’autogrill e di cazzeggiare come in un villaggio turistico, sommate alla capacità organizzativa da epica letteraria, contribuiscono a rendere questo festival un unicum nel panorama europeo. Sorprendentemente comodo e rilassato per chi è abituato agli altri festival ed ottimo inizio per chi vive la musica senza ossessione. In quest’area il territorio naturalistico diviene contenitore e non il contrario; l’ospite riceve tutte le attenzioni necessarie, ma al tempo stesso, senza drammatizzare i piccoli obblighi che il senso di civiltà impone, riesce a stare al posto che l’Universo gli ha riservato.