In nove mesi possono succedere tante, tantissime cose. Banalmente, si può creare una vita. Ancor più banalmente, una vita può distruggersi, rinnovarsi e rinascere. Ma cosa sono nove mesi nei confronti del prossimo, dell’esistenza, del futuro? Tutto e niente, meri punti di vista, banali storie accomunate dall’essere umano soltanto.
Proprio nove mesi sono trascorsi dall’annuncio del concerto di Nils Frahm al giorno dell’evento stesso, e io non lo so cosa sia successo in questo lasso di tempo nelle vite delle persone che hanno popolato il Fabrique di Milano per l’unica data italiana del compositore tedesco. Quel che so è che, durante l’esibizione, il tempo, lo spazio, e tutti i paradigmi terreni non sono stati prerogativa dell’uomo sul palco né, tanto meno, degli occhi che lo hanno guardato, delle orecchie che lo hanno ascoltato, degli animi che lo hanno percepito, increduli.

Lo si capisce subito che Frahm è un compositore, un artista, ma ancor prima una persona, speciale, un animo gentile. Lo si percepisce dal sorriso e dai saluti, dallo sguardo, da una postura quasi goffa nella presentazione, radicalmente tramutata in altro non appena un polpastrello si posa sull’avorio bianco e nero. È incredibile vederlo all’opera in quel microcosmo fatto di sintetizzatori, tastiere, un piano a coda, un organo nel backstage (come da lui stesso raccontato), effetti analogici e pedali, una sorta di “piccolo” studio portatile comprensivo di mixer, compressori ed equalizzatori. Tutta l’apparecchiatura lo avvolge e lui ne è maestro, la governa spostandosi di macchina in macchina, come se fosse a casa, tra le mura domestiche. E in fondo così è, perché la dimensione live è quella che meglio si confà all’estro di Frahm (e non è un caso che il successo sia arrivato proprio con il magnifico live-album Spaces).

Credits: Fabrique Milano

Le composizioni del nuovo All Melody prendono nuova vita e si intersecano egregiamente anche con quelle più vecchie, creando un percorso, un divenire ragionato e variopinto che astrae e al contempo eleva mente e spirito. Le prime note di The Whole Universe Wants To Be Touched sfociano in Sunson e nelle sue percussioni quasi world, con una cassa (sì, avete letto bene) che fa ondeggiare, proprio come accade con il connubio All Melody e #2, altre due perle che prendono il volo tra arpeggiatori, filtri che si aprono in un tripudio di melodia, bassi vibranti, rumore bianco, cori sacrali ed effetti luminosi. Contraltare di questi momenti orchestrali (ma mai stucchevoli, anzi) sono gli emozionanti piano solo: dalla tracotanza di Hammers alle corde percosse con gli scopini del water di Toilet Brushes, dalla sensibile e toccante calma di Familiar My Friend The Forest sino alla chiusura di MoreL’emblematica catarsi è ovviamente raggiunta durante Says e la sua ineffabile esplosione, quel cambio di accordo, quel crescendo inesorabile che, quando non ne può più, si manifesta in tutto il suo splendore, commuovendo.

Non immaginatevi un personaggio austero e solenne, però. Nils sa anche intrattenere, mettendo in scena simpatici intermezzi chiacchierati sulla convivenza di suoni “cool” e strumenti “brutti” nella composizione, sull’inutilità di uscire e rientrare per l’encore, sulla vendita di magliette non autorizzate (tipicamente italiana) fuori dalla venue, sulla semplicità compositiva proprio di Says, traccia che, (auto)ironia della sorte, più di tutte rappresenta la sua produzione artistica. È tutto vero e sincero, a proprio agio, nulla è forzato e sembra di parlare con un amico di vecchia data.

Credits: Fabrique Milano

È tutto vero proprio come il sudore che gronda dal suo viso sugli strumenti, come un errore che lo costringe a scusarsi e ripartire, come il tempo necessario a programmare le macchine prima dei nuovi pezzi, come il rumore in presa diretta delle dita sui tasti, dei sospiri, del fiatone e dei mugugni che aiutano a tenere il tempo nelle composizioni più fisiche e complesse, quando la stanchezza si fa sentire. È un live studiato nei minimi dettagli, perfettamente calibrato nei suoi elementi classici ed elettronici, impressionante se ci si ferma a considerare che sono solo dieci dita a muovere tutti quei fili, una performance che lascia trasparire passione e studio, competenza e genialità.
È difficile da spiegare la sensazione a parole, ma raramente mi è capitato di assistere a un concerto in cui arte e artista si compenetrassero così perfettamente: è come se, nella realizzazione, Frahm entrasse nella sua stessa musica e viceversa, dando la luce ad un indissolubile connubio, l’uno linfa vitale per l’altro. Noi che stiamo lì a guardare percepiamo la necessità di quei momenti: la privata urgenza dell’arte è troppo imponente, il bisogno di esprimersi è un fardello di cui il pianista si deve liberare, facendo di quelle melodie un umile ma preziosissimo dono che noi siamo lieti di accogliere, a cuore aperto.

In nove mesi possono succedere tantissime cose, è vero, ma in due ore possono succederne ancor di più.
In due ore ho visto la creazione, da dei tasti bianchi e neri, di un universo multicolore che difficilmente dimenticherò.