Disorientamento

È il 24 novembre e a Milano piove. Nulla di strano. Nicolas Jaar propone un live set all’Alcatraz, una delle location più capienti in città. Sold out. Arrivato poco dopo le 21, mi aspetto una lunga coda in attesa di entrare. In realtà entro senza attendere più di 2 minuti. Trovo l’interno dell’Alcatraz chiuso a metà. Mi sorprende scoprire che non abbiano aperto gli spazi per consentire la capienza massima vista la grande domanda di biglietti, ma in fin dei conti si rivela una scelta più appropriata ad ospitare il concerto che il prodigio di New York ha in serbo per i pochi fortunati possessori di un biglietto. Il palco presenta un allestimento scarno: drum machine, sintetizzatore modulare analogico, microfono e sassofono al centro circondati da varie luci; il tutto costantemente avvolto da fumo bianco. Poco prima delle 22, Nicolas Jaar sale sul palco, ringrazia rapidamente e con un certo distacco il pubblico presente e dà inizio allo spettacolo. Risulta immediatamente chiara una cosa: la complessità della musica fa da contraltare al minimalismo della componente visiva. Ha inizio un sogno lucido di 2 ore. La prima ora scorre rapidamente; Jaar ci prende per mano e ci accompagna in un percorso sensuale, affascinante e inquietante, rumoroso ed elegante, tra alcune tracce che suonano familiari, ma che non riesci immediatamente a riconoscere. Non è un concerto tradizionale. Non ci sono pause e le singole canzoni si fondono l’una nell’altra, emergono e si dissolvono in un’aria rarefatta. Sono “facce” conosciute, ma a cui non riesci ad attribuire un nome. Un sogno da cui esci solo nella seconda metà del live, quando Jaar impugna il microfono, si china verso la cassa monitor e inizia a pronunciare parole che ti permettono di identificare una canzone. 2 ore sono sufficienti all’artista per presentare una buona parte delle sue ultime produzioni tratte dagli EP Nymphs, dagli LP Sirens e Space Is Only Noise, vecchie tracce come A Time For Us e Mi Mujer, ma anche produzioni meno celebri, come Just My Imagination, svelata all’interno del progetto radiofonico su Other People alla vigilia dell’uscita di Sirens.

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Il sublime

Ho vaghissimi ricordi di ciò che avrei dovuto studiare al liceo. Le lezioni di filosofia, in particolare, non hanno lasciato grosse tracce nella mia corteccia cerebrale. Dopo una decade, un solo concetto è rimasto impresso più o meno saldamente: il Sublime secondo Kant. Sublime statico che nasce dalla contemplazione di una natura vasta, fuori dal tempo, e quello dinamico, che si osserva nella potenza distruttrice dei fenomeni naturali e che consente all’uomo di prendere coscienza del proprio limite. Il live di Jaar si colloca perfettamente tra queste due definizioni. Sebbene sia tutta opera umana, guardando questo ragazzo di 26 anni, capita di chiedersi se sia effettivamente un uomo come noi. Totalmente immerso nella sua musica, avvolto in una coltre di fumo, la sua figura scura si staglia nel bianco delle luci che lo circondano; guarda il pubblico adorante che gli sta di fronte una sola volta, non sorride, non parla, lascia che sia il suo spettacolo a farlo.
Non sorprende che Nicolas sia figlio di un artista: il suo live è un’esperienza che si avvicina alla contemplazione di una mostra d’arte, un’installazione audiovisiva che per 2 ore è capace di assorbire l’attenzione di chi ne è testimone. Un viaggio astratto tra momenti di quiete, melodia, le sue mani nel buio che suonano accordi su un synth, cambi di frequenza mentre maneggia gli oscillatori, atmosfere ambient e attimi brevi ma intensi di rumore più acuto, bassi che penetrano nello stomaco, lo stridere di un sax suonato con furia, luci bianche che illuminano la nebbia che circonda il locale, come lampi in un cielo di pece. Il sublime statico e quello dinamico, per l’appunto.

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Vietato ballare

Nonostante sia cresciuto ascoltando e ammirando il cileno Ricardo Villalobos e abbia prodotto, soprattutto agli esordi, delle tracce decisamente club-friendly, Nicolas Jaar è sempre stato abbastanza fermo nella sua decisione di non definire “dance music” le sue produzioni. Così, durante la sua esibizione, anche quando i ritmi si alzano, quando cassa e basso cominciano a picchiare, la sala non si trasforma in una pista. La componente dance è un’orma percettibile ma lontana, sfocata, calcata in un suo passato ormai remoto, che nel corso degli anni si è evoluta rapidamente e molteplici volte, per trasformarsi in un un’opera da contemplare in silenzio, molleggiando sulle ginocchia, senza staccare i piedi da terra. È così che A Time For Us, The Governor, Swim e Mi Mujer, con cui chiude il live, diventano momenti di sfogo, il climax di un’eccitazione complessiva maturata durante le tracce più lente, introverse. Pochi minuti in cui il pubblico urla, alza le braccia, comincia a muoversi trainato da un sentimento di frenesia collettiva. Dura poco. A parte poche persone particolarmente euforiche, nessuno balla realmente. È un lasciare le gambe libere di muoversi, ma nulla di paragonabile a quanto accade durante un Dj set in un club ed è giusto così, perché si tratta di una forma d’arte diversa, più complessa, che muove più la mente che gli arti. Uscendo dall’Alcatraz si percepisce una sensazione di sazietà, un appagamento dei sensi che accompagna per ore dopo il termine del live. Succede di rado, come di rado si incontra un artista tanto giovane quanto consapevole delle proprie capacità.