A cinque anni da un lontanissimo 2014, Mac DeMarco è tornato ad esibirsi sul palco del Circolo Magnolia. A cinque anni da quella volta che gli hanno fatto un panino con la salmonella. Il migliore della sua vita, a suo dire. Era novembre, non ricordo se piovesse. Ieri, invece, c’erano trenta gradi e le zanzare ronzavano nel bel mezzo di un’invitante orgia di canottiere e vestitini che mostravano braccia e brandelli di carne da trafiggere.

Sono cambiate tante cose, ma quello che non è cambiato è certamente l’impatto sulla sua fanbase, che in cinque anni ha raggiunto dimensioni più che considerevoli ed inaspettate, anche tra i giovanissimi.

Dato il clima, quella di ieri non era certamente la giornata adatta per la camicia a quadrettoni e per i risvoltini dei suoi meme. Al contrario, Mac (inopportunamente acclamato dalla folla “MARCO MARCO!“) ha sfoggiato il collaudato outfit della domenica pomeriggio quando vai a comprare la coca cola del ripiglio dopo aver fatto serata: berretto lurido del Nintendo 64, pantalone sporty (rectius del pigiama), con uno smile sulla gamba sinistra e la solita scarpa bucata, che una volta era simbolo dei velisti del college, mentre oggi è da skater. Ha sempre l’aria stravolta e la manina che schiocca le dita compulsivamente, ormai lo conosciamo, ma (anche ieri) ci ha dato dentro di brutto. Ma non come quelli che si scassano sul palco senza senso, al contrario ci ha dato un saggio di tutte le sue qualità artistiche, non solo estetiche. Senza filtri e senza “eh, maaa“.

L’attesa è stata snervante e resa ancora più insopportabile dal mix di emissioni degli anti-zanzare e delle ascelle sudate, ma una volta silenziata la playlist del cambio palco, è finalmente iniziato il tanto atteso party.

Le hit, tra cui On the Level e Salad Days, sono arrivate subito, facendo dimenticare immediatamente puzza e zanzare e svelando le intenzioni della band e del pubblico. Dopo un’oretta scarsa ci siamo sentiti praticamente mezza discografia: vecchie e nuove canzoni che hanno ripercorso tutti i suoi album, da Rock and Roll Night Club, all’ultimo Here Comes The Cowboy.

Il suo live è stato, come sempre, un mix di “old and new songs” (cit.), arrangiate e suonate diversamente da come suonano negli album, specie per le canzoni del nuovo disco. Anzi la tendenza mostrata ultimamente è proprio quella di portare il suo indie lo-fi ad un livello superiore e rinforzarlo con maggior groove, celando le lacrime dei suoi testi malinconici dietro le sonorità da piano bar.

In ordine sparso, tra le altre: The Stars Keep On Calling My Name; Freaking Out The Neighborhood; Cooking Up Something GoodNobodyRock and Roll Night ClubOde To Viceroy; Another One; All Of Our Yesterdays; Choo ChooChamber of Reflection; My Kind Of Woman, con l’artista canadese che con qualche c’mon motherfuckers ha incitato il pubblico che, da parte sua, gli ha cantato in faccia praticamente tutti i ritornelli, che manco al concerto di Calcutta.

A differenza delle esibizioni nei festival, ieri è stata la sua serata e questo gli ha permesso di fare uno show (molto) lungo, con siparietti, bevute ed un paio di rutti. Quasi due ore di live con un gran finale con la gente seduta per terra e dieci minuti con Andy alla voce e Mac ed i suoi pantaloncini del pigiama con lo smile sorridente sulla gamba sinistra a bighellonare sul palco. In questa versione non c’è stato spazio per lo stage diving, sostituito da una sottospecie di jam session (di)storta, di quelle che si vedono nei più fumosi e puzzolenti locali di borgata, con i beoni degli anni d’oro che riprendono in mano il ferro dopo 20 anni per far sentire ai giovani che non hanno capito un cazzo dalla vita. E via di virtuosismi caciaroni, fino a che non siamo ri-partiti tutti a cantare il ritornello di Still Together, il suo grande classico in chiusura.

Mac DeMarco è un piccolo Narciso, in studio e sul palco. Uno che rifiuta e che tenta di non farsi affliggere dalle sofferenze. Ne canta a pacchi nella sua discografia sostanzialmente drammatica, ma con sprezzante dignità. E questo atteggiamento viene portato anche nei live, se possibile con ancora più enfasi. Da un lato tende ad esorcizzare il male e dall’altro fa finta che non lo riguardi. Profondo senso dello humor e goffaggine, che da lontano lo fanno apparire come una barzelletta che non fa più ridere sono, sono sia una corazza sia una spada. Rappresentano meccanismi di difesa e di rivolta con i quali  anche la morte dell’amore si tramuta in un gioco da ridere. E come tutti giochi e come tutte le barzellette, fanno ridere ma sono anche tremendamente seri, anche se non sembra.

Foto di Andrea Pelizzardi