Uno studio ha stabilito che il componente più importante di una band è il bassista, ma i Japandroids non lo sanno e continuano a spaccare tutto lo stesso. Reduci da due live al Primavera Sound, il duo canadese arriva alla Santeria Social Club di Milano carico come se fosse l’inizio del tour, con le riserve di energia ancora piene fino all’orlo.

Subito dopo essersi palesati sul palco, accompagnati dalle note di Punk Rock dei Mogwai, David inizia a pestare come un ossesso sui fusti e Brian a fondersi in un tutt’uno con il feedback della sua chitarra e a gridare nel microfono, per quello che sarà un concerto tiratissimo da 90 minuti. Loro sanno tenere il palco come il galateo del rock richiede, tra pose naturali che sottolineano il coinvolgimento nel suonare i propri pezzi con un trasporto viscerale, passando per il ringraziamento a chi, tra il pubblico, si è fatto la doppietta Primavera-Milano, arrivando ai complimenti per la venue fino al brindisi di vodka offerto a un ragazzo nelle prime file, il quale aveva ben pensato di indossare una maglietta riportante la scritta Vancouver, città natale dei Japandroids.

Per dovere di cronaca, comunque, se il problema del volume troppo basso della voce nelle prime file è stato sopperibile da un continuo sing along, dubito che, qualche metro più indietro, si sia potuto apprezzare l’esperienza appieno: molti hanno infatti lamentato di non riuscire a sentire la chitarra, debitamente amplificata e quindi più che godibile sottopalco, ma evidentemente mal microfonata.

La scaletta è varia: Near To The Wild Heart Of LifeNorth East South West e Arc of Bar trascinano il nuovo lavoro (che non ci ha convinto), sì, ma è ovvio che il pubblico impazzisca con i successi del passato, quel passato fatto di Post Nothing e Celebration Rock, due dischi che, ora possiamo dirlo, hanno resistito all’azione corrosiva del tempo, sedimentandosi nei cuori e nelle trachee irritate dei fan. E così Younger Us e French Kiss, Fire’s Highway e Evil’s Sway, Heart SweatsThe Nights of Wine and Roses sono un tripudio di emozioni che sfociano in balli, grida, sudore e pogo, un pogo in cui puoi trovare anche un cinquantenne in abito elegante che ride, si diverte e spintona ragazzi che potrebbero essere i suoi figli, con la faccia di chi si sta scrollando di dosso tutte le formalità della vita e del lavoro.

Il finale è tutto per gli scream all’unisono di Young Hearts Spark Fire, per la pelle d’oca di una romanticissima Continuous Thunder, quiete prima di una tempesta che risponde al titolo di The House That Heaven Built: La Canzone, di quelle che ti capita di scrivere una volta nella vita, un anthem che ha la potenza di un inno trasversale a più generazioni.

È stato bello, anche se solo per novanta minuti, preoccuparsi solo di perdere la voce e di sfogarsi, sempre con la consapevolezza di non essere soli, ma di avere tutt’intorno persone dedite allo stesso scopo. Non era solo l’unisono del canto, era qualcosa di più, erano grida che tendono alla catarsi, e un Brian sfinito, distrutto, sdraiato a terra per un tempo indefinito a fine concerto ne è la testimonianza.

Foto di Andrea Pelizzardi.