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Non era la prima volta che ci accingevamo ad assistere ad un concerto nell’anfiteatro del Vittoriale; già altre volte ci eravamo seduti comodi nelle gradinate in pietra, a metà strada tra le opere architettoniche e la natura, in un contesto paesaggistico dinamico nel quale la condizione naturale, diventa condizione culturale. Un luogo che se lo visiti da piccolo e lasci andare la mente appena sopra la soglia della ragione, trasforma ciò che ti circonda da semplice boscaglia a fotografia delle imprese eroiche di uomini valorosi e dei loro visionari deliri.

Esserci già stati, tuttavia, non ha minimamente intaccato né scalfito la sacralità di quel momento e di quel luogo che, un tempo, fu abitazione di Gabriele D’Annunzio. Al contrario, passeggiare nuovamente durante il soundcheck, tra i vicoli, gli ulivi ed i cipressi; in cima al Mausoleo, o circumnavigando la nave Puglia ed il MAS, ha ri-colorato i nostri volti, già stupiti per quello che avevamo davanti ai nostri occhi, del colore della storia; quel colore che se lo mischi con l’arte ne esce una tavolozza intera di sensazioni inesistenti nel mondo conosciuto.

Ebbene (conviene ribadirlo, sebbene i caratteri scuri su pagina bianca non renderanno mai l’idea) eravamo nel giardino della casa di D’Annunzio, eroicamente e patriotticamente lasciata a noi poveri atomi del cosmo, per i Kings of Convenience, che da lì a poco avrebbero incantato la riva del Garda appena sopra Salò, per il loro tour celebrativo dei 15 anni di carriera, promosso da Tener-A-Mente.

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Parlavamo di sacralità e per buona parte del concerto ci abbiamo provato a mantenerla; noi e la platea gremita. Pubblico delle grandi occasioni, già al primo rinnovo di patente e con una dose di eleganza più simile alla prima della Scala che non ad una schitarrata sul lago, mentre il diktat della serata risuonava dall’altoparlante e io mi sistemavo i calzoncini alla zuava:

“Telefoni spenti, divieto di fumare e no fotografie. Il concerto inizierà tra pochi minuti.”

Eccoli giungere sul palco, di fianco al Cavallo Blu di Mimmo Paladino e con alle spalle lo spettacolo naturalistico del Garda che – probabilmente – ha emozionato anche loro.

Scherzano sul loro silenzio di questi anni, scherzano sulle loro esperienze di vita londinese e mentre il sole scende lentamente – come se la calma avesse contagiato anche le rigide regole che governano l’universo – partono con gli arpeggi.

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Curioso l’inizio con Winning a Battle, Losing the War (piazzato in apertura) quasi a rievocare le imprese d’annunziane della guerra e del suo MAS. E una dietro l’altra scorrono le prime canzoni, mentre il pubblico – diligente come gli scolaretti al primo giorno di scuola – non fa una piega: Toxic Girl; Singing Softly To Me/The Girl From Back Then; I Don’t Know What I Can Save You From; Failure; The Weight Of My Words; Love Is No Big Truth; Second To Numb.

Il clima, ormai, era rovente e le gambe iniziavano ad agitarsi sulle seggiole, come se gli arti si fossero allunganti e le sedie rimpicciolite, facendoci sentire prigionieri. Anche dalla prima fila si registrava troppo poco contatto tra noi e loro e riuscire a vedere il palco senza l’intralcio degli smartphone iniziava a destabilizzarci.

E così, la seconda metà del concerto – complice anche la carrellata delle grandi hit (forse finalmente conosciute da tutti i presenti) si è tramutata in un’indianata il cui capofila era proprio Erlend Øye, che con delle movenze a mezza via tra David Bowie e Woody Allen incitava la folla come un capovillaggio.

Tempo due minuti e sono tutti in piedi sotto palco, ad accompagnare le canzoni con lo schiocco delle dita o ad ondeggiare come al ballo di gruppo sulla navi. Chi si aspettava il monotema di due ore alla Simon & Gurfunkel è rimasto deluso, dato che a tratti, e nonostante la tristezza insita nei loro testi, sembrava un party al chiringuito. E, quindi, in rapida successione: 24/25; Know How; Boat Behind, Mrs Cold; I’d Rather Dance With You, prima di un fragoroso applauso che ha risuonato per tutta la valle e avvicinandosi, quasi fino a toccarlo, il record dei 92 minuti di applausi della già nota Corazzata Potempkin.

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Da buone rockstar anche loro si concedono il trionfale encore acclamato anche dai più insospettabili incamiciati e con Misread e Little Kids chiudono la loro gita italica, facendoci sentire come quelli che mangiano tanto ma mai fino alla sazietà, lasciandoci – appunto – un piccolo spazietto dentro di noi da riempire con le mille personalissime suggestioni di queste due ore di live.

Forse però, il momento più alto, giunge poco prima dei saluti, con una Homesick eseguita magistralmente (seppur con le impercettibili ed adorabili imperfezioni delle dita sulle corde) che – forse per caso o forse volutamente – ci ha fatto sentire parte di qualcosa di unico e che avremmo voluto guardare da tutte le angolazioni possibili con la curiosità dei forestieri che cercano il senso della vita proprio nel momento più cupo del loro cammino e che trovano all’ombra di un cipresso, calcando le orme di chi ha fatto la storia.