Tra una commedia plautina, una Fedra e una Medea, forse gli spettatori di duemila anni fa non avrebbero mai immaginato che un paio di millenni dopo, noi pronipoti, avremmo assistito su quella stessa platea ad uno spettacolo così. Insomma duemila anni fa forse non avrebbero predetto che Rock in Roma potesse collocare James Blake in un luogo così compatibile con la sua musica: il Teatro Romano di Ostia Antica.

L’artista britannico, con altri due musicisti, entra sul palco in orario, dopo essere stato introdotto dall’ottimo set di apertura, intenso e ironico, di Wrongonyou. L’ingresso in scena di James Blake è accolto da un applauso concitato, ma che dura giusto il tempo in cui i tre si accomodano sulle loro postazioni, perché poi scatta il cortocircuito. Si crea un momento di sospensione, silenzio assoluto; il profilo elegante di James è seduto sulle tastiere, a destra della platea. Al centro c’è la batteria digitale. A sinistra chitarra e programmi.

Che tipo di scenografia c’è? c’è il vuoto dietro il palco, niente. “Niente” che significa colonne del complesso archeologico illuminate e un ultimo barlume di tramonto che si intravede da dietro i pini marittimi che ombreggiano tutto il sito.

Sospensione e silenzio assoluto quasi claustrofilici, che prontamente si interrompono quando James poggia le dita sulla tastiera. Parte Assume Form, inizia il concerto ed è come ritrovarsi dentro a una bolla di sapone. La voce di Blake diffusa nell’acustica perfetta e racchiusa del teatro ha un effetto trasognante, ipnotico.

Tutti sono seduti con lo sguardo fisso verso il palco e sembra di essere tornati indietro nel tempo: non mi riferisco ai tempi dei romani ma a quando ancora non avevano messo la fotocamera ai cellulari. Solo pochi audaci hanno avuto il coraggio di filtrare quel momento attraverso l’occhio dello smartphone. Perché possiamo dirlo, è stata un’apertura di concerto quasi mistica per impatto spazio-temporale del Teatro con il suono dell’artista. Menomale che alla fine del primo pezzo in scaletta James ci ricorda che è umano: con voce pacatissima saluta il pubblico e si scusa un secondo che deve proteggersi dalle zanzare: sì, gli passano uno spray che si spruzza abbondantemente su tutto il corpo – il primo feat. che sentiamo in serata è quello con l’Autan.

Feat. che introduce subito quel pezzone che è Life Round Here, il cui titolo diventa premonitore: si vedono infatti parecchie persone “svegliarsi” dal sogno e scendere dagli spalti (pieni ancora di calore solare) per piazzarsi in platea sotto palco, per avvolgere i musicisti, per vedere tutto da vicino, vedere che sì, è tutto reale. Seguono Timeless e poi Mile High, il primo pezzo (o secondo, se si calcola l’antizanzare) ricco di ospiti; anche in questo caso, dubito che gli stessi spettatori di una cothurnata duemila anni fa potessero immaginare che un giorno nel teatro riecheggiasse la voce di Travis Scott o di ROSALÌA o di Andre 3000. Ma così è: James Blake in un set completo e perfetto duetta anche con le voci del suo parterre di collaborazioni diffuse in loop, ci riesce egregiamente. Riesce alla perfezione tutto, in questa data italiana.

“Che artista stiamo vedendo?”, tante persone si fanno questa domanda. Intorno a me vedo gente che agita le mani come a dire “ma quanta roba è?“. Lo fanno ad ogni virtuosismo vocale, musicale, ad ogni stacco mozzafiato in scaletta. Lo fanno all’inedito Loathe to Roam (quanto somiglia a Blue Train Lines dei Mount Kimbie e King Krule?). Lo fanno quando a metà del concerto il cantautore si alza dallo sgabello, si avvicina alla gente, si mette in piedi davanti al microfono e canta accompagnato dall’arpeggio della chitarra e dallo schiocco di dita del batterista. Lo fanno quando il set si scatena in un interludio techno al termine di Voyeur: un 10 minuti di battiti clamorosamente conservati nel semicerchio della cavea, che fanno da ponte alla sezione conclusiva del concerto. Sezione che viene inaugurata da Retrograde, il cui iniziale “You’re on your own” varrebbe da solo il prezzo del biglietto, e che si conclude con Don’t Miss It, brano molto intimo che viene introdotto con emozione, ironia e serietà dalla voce di James.

Il concerto è stato un tripudio. Quasi due ore di spettacolo, spettacolo puro, in grado di smuovere nei sentimenti delle persone le più varie combinazioni chimiche. Dopo Don’t Miss It il trio, che era uscito, rientra sul palco, non poteva essere altrimenti dati gli applausi e i richiami del pubblico. Insieme eseguono The Wilhelm Scream, brano fuori scaletta, un regalo prezioso per la magia della serata.

Infine, dopo aver meritatamente presentato e salutato i due compagni di palco, James Blake rimane solo sul suo posto. Piano e voce, tra le pietre millenarie e i pini marittimi del parco archeologico. Con A Case of You, cover di Joni Mitchell, si dissolve la bolla di sapone. Il concerto si conclude con i suoi inchini davanti alla standing ovation che è sorta spontanea in tutta la cavea.

Ritornati nel mondo reale si è capita una cosa.

Si è capito che se prendi James Blake, se lo fai esibire nel Teatro Romano immerso tra le rovine di Ostia Antica, ogni cosa che accade assume al massimo grado un valore di bellezza che anche l’artista ha rivelato di non aver mai raggiunto prima, nella sua decennale carriera. Una location unica che il fuoriclasse britannico ha onorato con una esibizione magistrale, indimenticabile per chi c’era.

Sensibilità, ironia, serietà, professionalità, artisticità: James Blake ha messo sul palco di questa data romana tutto ciò che di meglio il suo enorme talento può sprigionare.

Scaletta:

Assume Form
Life Round Here
Timeless
Mile High
I’ll Come Too
Barefoot in the Park
The Limit to Your Love (Feist cover)
Love Me in Whatever Way
Are You in Love?
Can’t Believe the Way We Flow
Loathe to Roam
Where’s the Catch?
Voyeur
Retrograde
Don’t Miss It

The Wilhelm Scream (non presente nella scaletta in programma)
A Case of You (Joni Mitchell cover)

[Le foto sono di Sara Serra, via Rock in Roma]