Un mercoledì uggioso accoglie, per la prima volta in Italia, i Django Django al Tunnel di Milano (dove per la gioia di tutte le bacheche non c’è alcun tipo di rete che permette di postare in tempo reale le istagrammate), tra la curiosità generale e un leggero scetticismo di chi non sa in realtà a cosa sta andando incontro. La next big thing apprezzata da tutta la critica per la sua visione futuristica, è il simbolo di una nuova forma di britpop, che parla di alieni in ambientazioni da spaghetti western, e no, non è un altro (fottuto) revivalismo.

Già mi sento un po’ meglio nell’accertare che non ci sono motivi floreali in giro, così la folla è divisa in gente posseduta pronta a farsi trascinare dal sound ibrido dei nostri, e altri che con occhio un po’ critico sono pronti ad essere ammaliati. A mischiare le carte ci pensa il gruppo spalla, gli Eaux (che mi viene da pronunciare con un colpo di tosse), un trio synth pop selvaggio con le idee un po’ confuse, dove l’unica nota di merito è lei, la Violante Placido più fredda del nord, che oltre a cantare e muoversi da sciattona, fa ben poco. Dopo questa parentesi non memorabile, i nostri tra sorrisi e sbadigli di chi sembra capitato lì per caso calcano il palco per il soundcheck, incamiciati così tanto che per un attimo ho creduto di avere davanti i Franz Ferdinand. Il paragone non suona poi così tanto male, e nonostante la nuvoletta di hype che li segue dall’alto, David, Vincent, Jimmy e Tommy sono davvero dei bravi ragazzi, che alle chiacchiere preferiscono far parlare la musica. Riservati a tal punto che Vincent chiede quasi scusa per soffrire maledettamente di caldo ed essersi sbottonato giusto un po’ la camicia.

La loro attenzione è mirata alla cura maniacale di ogni singolo pezzo, evidenziando una grande maestria nel gestire la miriade di strumentazioni a loro disposizione: synth, samplers, tamburi, percussioni, maracas e un vibraslap oltre a chitarre, basso e batteria. Data la difficoltà di linguaggio con i responsabili audio, questa cura viene a mancare in piccoli (grandi) dettagli come il volume basso del riff psyco surf di Hail Bop, che segue l’Intro come su disco.

Il primo atto scorre una favola e procede con Storm, Firewater e Waveforms, eseguiti egregiamente grazie ad un’impeccabile resa live, e i posseduti (in particolare un tizio leggermente in sovrappeso che è riuscito a dare nello stesso istante un pugno e una gomitata ad una tipa indie acida alla mia sinistra) cominciano a crescere di numero. La chitarra acustica di Hand Of Man è la quiete prima della tempesta, che si apre con l’ipnosi di Skies Over Cairo, e si scatena con la bomba Default, che fa bagnare di felicità un po’ tutti, Tommy compreso che non smette di saltare e ridere allo stesso tempo.

C’è un cambio d’umore generale  che percepisci guardando quei quattro quanto cazzo si stanno divertendo, e dopo Life Is A Bitch c’è Wor, e il Tunnel diventa una corrida. Adesso sì che siamo tutti posseduti. Silver Rays è l’ultima gloria dei nostri, ma la tristezza di esser già alla fine di uno dei concerti dell’anno ci ricorda che i nostri sono appena alla prima fatica. Ma la prima volta non si scorda mai. So, let’s Django again!