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Fa un caldo terribile. Flegetonte (così viene chiamata l’ultima ondata di caldo) non da tregua e ci soffoca, anche se sono le 20.00, anche se sono le 21.00, anche se sono le 22.00. Ci sudano le mani, i piedi, le ascelle, la fronte, il mento e il sottopalle. “C’era scritto alle 20” dice qualcuno. “No, io ho letto 21!” risponde qualcun altro. Perché il caldo da solo non basta, no.

Passate le 22 da pochi minuti  la musica di sottofondo si abbassa  e sul palco compare una decina di persone, ma Lui non c’è. L’intro di Ain’t That Easy è tirato lungo per creare suspance e per permettere a D’Angelo di apparire in solitaria e iniziare a cantare in mezzo ad un tripudio di applausi, palpitazioni e urla. Ecco, il pubblico. Il pubblico è costituito da ciò che non ti aspetti: normocore di ogni tipo, zero hipster, zero poser, pochissima gente di colore. Lo stesso pubblico che si può trovare per assurdo ad un concerto dei Subsonica o, che ne so, dei Coldplay (teenager a parte). Tutti inizialmente freddi, nonostante il caldo afoso.
La potenza di D’Angelo e della sua band esplode subito dopo in Vanguard Theme (praticamente una jam session di 5 minuti) ed è così devastante che riesce a far scomparire Flegetonte e a far alzare un venticello rinfrescante che ci permette di muoverci un po’ di più – azzardando magari qualche movimento di bacino – e di iniziare a cantare ad alta voce i ritornelli. Le foto che negli ultimi anni ritraevano D’angelo sovrappeso sono state cancellate: davanti abbiamo un Michael in formissima che si diverte a ballare, a seguire le coreografie con i 3 coristi (che bella quella in Betray My Heart) e a intrattenere il pubblico invitandolo a cantare porgendogli il microfono in più occasioni.

Sotto l’aspetto musicale è tutto dannatamente perfetto e incredibile: di fronte abbiamo mostri sacri della musica suonata come Pino Palladino (basso) e Chris Dave (batteria). Non vogliatemi male se vi dico che per diversi minuti ho preferito seguire le prodezze di Chris Dave al posto che seguire il resto dello show. Un fottutissimo mostro. I coristi sono impeccabili con le lori voci e i loro frizzanti balletti. I due fiati, seppur un po’ nascosti, si fanno sentire insieme alla vicina tastiera. Le chitarre – contando quella di D’Angelo – formano un tridente d’accatto che ti cappotta in questi 90, circa, minuti di musica.

D’Angelo dal canto suo suona chitarra o pianoforte praticamente in ogni pezzo, va da una parte all’altra del palco per arringare la folla, riuscendoci con ottimi risultati (tranne in Brown Sugar, probabilmente perché il pubblico non conosceva il testo). I cambi di abito sono molteplici, forse 6 addirittura, ma non è un problema perché la band che non lascia spazi vuoti in nessun caso, anzi li riempie con brevi jam e/o intro dei brani allungati. La voce è emozionalmente devastante: le note più alte ti gelano il cuore, per poi riscaldartelo con i brani più dolci e caldi come Really Love e Spanish Joint. Oltre a fare poli-strumentista, si immola nel ruolo di direttore d’orchestra creando una sorta di sfida/gioco/show con il resto della band che deve riuscire a stare dietro alle sue indicazioni. Durante The Cherade, invece, chiede al pubblico di alzare il pugno verso il cielo per ricordare le vittime della strage di Charleston; 4 minuti di mani alzate al cielo che non fanno altro che ricordare la copertina di Black Messiah, album in cui, tra le tante, ha cantato in difesa della popolazione nera.

Vedere sul palco un artista del genere (e tutta la band dietro ovviamente) è uno spettacolo sotto ogni punto di vista e chi era presente farà fatica a dimenticarsene perché di show di questo tipo ne esistono sicuramente pochi al mondo: come su album, D’Angelo riesce a concentrare decenni di musica in pochi minuti, permettendoci di viaggiare in luoghi e culture che con la mente neanche potremmo minimamente immaginare. STUPEFACENTE.