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Se una forma di vita aliena mi prelevasse nel sonno e mi costringesse a fornire una spiegazione esaustiva di come la generazione Y approcci il mondo del clubbing, probabilmente mi limiterei ad aprire il canale YouTube di Boiler Room: esiste forse qualcosa che meglio rappresenti una generazione di vanesi dipendenti da qualsiasi forma di schermo? Trovo superfluo soffermarmi a spiegare cosa sia Boiler Room, d’altronde il progetto esiste dal 2010 e state leggendo un post di una webzine che non parla esattamente dell’ultimo successo di Ligabue. Mi limiterò a ricordarvi che l’11 Giugno 2015 ha avuto luogo il primo live di Boiler Room in Italia, precisamente nell’ExBazzi di Lambrate, a Milano, grazie alla partnership con Ray-Ban e il collettivo di Elita che ne cura gli eventi in ambito musicale. È un evento che finalmente si è concretizzato dopo che lo avevamo inutilmente atteso per moltissimo tempo.

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Dopo lo stupore iniziale, il mio primo pensiero è stato quello di ottenere un invito che è arrivato a sole 24 ore dalla diretta, quando ormai anche l’ultima traccia di speranza stava per svanire come una scoreggia nel vento. L’invito mi consigliava di presentarmi alla location entro le 21.30: dopodiché l’ingresso non sarebbe stato garantito. Arrivo all’ExBazzi alle 21.20, “arrivare prima è da sfigati, saranno tutti lì ad accalcarsi per entrare, meglio prendersela comoda” ho pensato tre me e me, con la saccenza propria di chi è convinto di effettuare una partenza intelligente al ritorno dalle ferie. Illuso. Come questi ultimi, mi sono ritrovato imbottigliato nel “traffico” per due lustri. Mi metto in fila e comincio ad osservare chi mi circonda. Non conosco nessuno, se non qualche faccia familiare della “Milano by night che conta”. Rimango colpito dall’alta percentuale di ragazzi, molto eterogenei. Le poche ragazze presenti non stanno in fila: camminano con spocchia davanti all’ingresso brandendo uno smartphone che usano per tentare inutilmente di chiamare quel qualcuno che potrebbe farle entrare saltando la coda che intanto avanza a folate, con ordine. L’attesa è lunga ma alleggerita da qualche curioso evento e personaggio: notando un’ insolita accozzaglia di giovani in un’area generalmente molto tranquilla, un simpatico vecchietto ci spia con un binocolo dalla terrazza di un palazzo poco lontano e un ragazzo sui pattini, in evidentissimo stato di ebrezza, si muove avanti e indietro con una certa difficoltà, finché non decide di cadere in maniera scomposta, di rialzarsi dopo qualche secondo di umiliazione e di abbandonare per sempre le nostre vite. Nel frattempo all’interno sta suonando Suzanne Kraft: l’aria vibra a causa di una cassa sporca e metallica che fuoriesce dall’edificio, risultato del suono “filtrato” dalle vecchie finestre aperte, da cui si intravede una parete su cui vengono proiettati dei visual con il celebre logo Boiler Room. Comincio ad essere impaziente.

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Riesco ad entrare solo dopo quasi un’ora di attesa, proprio quando ha luogo il primo cambio: lascia la consolle Suzanne Kraft e inizia Midland, annunciato da un host che, purtroppo, scopro non essere né Adolf Hipster né “Mr Rewind” Thris Tian. Poiché ho bevuto una Moretti da 66 prima di partire, nel timore che per un qualche assurdo motivo non servissero alcolici dentro la Boiler Room, la mia vescica, celebre per avere la stessa capienza di una tazzina di caffè, mi costringe ad andare in bagno prima ancora di aver capito dove mi trovi. E qui inizia la lunga serie di eventi che mi ha fatto capire quanto il mondo Boiler Room non obbedisca alle stesse leggi del mondo reale: c’è coda davanti al bagno degli uomini mentre neanche una persona è in attesa per quello delle donne. MADRE DE DIOS! Scopro molto presto che la causa della coda è la disponibilità di un unico bagno, ma nel frattempo ho modo di ammirare delle scelte d’arredamento che denotano ottimo gusto: un ritaglio di giornale con uno scatto di una Yamaha.

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Dopo essermi liberato, mi muovo rapidamente verso la sala principale, leggero come se stessi volando sulle ali dell’entusiasmo. Una volta arrivato scopro che, a differenza di quanto pensassi e temessi, l’acustica è più che soddisfacente. Nulla vibra: il suono esce forte, pulito e pervade l’intera sala, dissipandosi solo nella zona fumatori. La location è scarna ma organizzata in maniera ottimale, non si verificano mai colli di bottiglia. La consolle, con il classico schermo per i visual, è stata piazzata al centro della sala, ai lati ci sono i bar, in fondo, opposte al dj, le telecamere. La produzione è invece collocata in due appositi uffici, lontana dai miei occhi curiosi. E qui ecco il secondo evento inaspettato: la serata è open bar. Nulla di particolarmente strano, starete pensando. Infatti ciò che è assurdo è il fatto che non abbia mai dovuto aspettare più di 2 minuti per prendere un drink. Mi rendo conto che buona parte di chi avrebbe passato la serata a prendere quanti più cocktail sarebbe stato in grado di tenere in mano, si è posizionato dietro al dj, per essere catturato dalle telecamere in tutta la sua discutibile bellezza. Noto con certo piacere che le stesse persone che ballano per il pubblico da casa sono le stesse che poco tempo fa mi hanno monopolizzato il newsfeed di Facebook per farmi sapere che si trovava al Primavera Sound: chiamateli pure poser, presenzialisti, come preferite, ma, da qui in avanti, non ragioniam di lor.

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Scelgo un posto vicino al dj, coperto dalle casse in modo da non rischiare di finire su Boiler Room knows what you did last night. Midland è il nome che più sono stato felice di leggere nel momento in cui è stata comunicata la line-up: ottimo produttore e dj molto versatile, apparentemente una sicurezza, insomma. Posso dire che, per quanto mi concerne, è stata la nota più alta della serata, un set di un’ora che ha contribuito a creare un ambiente inclusivo, coinvolgente, tra house e techno “educata”. Con lo scorrere dei minuti l’atmosfera è diventata sempre più calda, sia letteralmente che in senso lato. Non mi dilungherò in lamentele per la temperatura eccessiva, solo dopo un’ora e mezza passata a ballare ho approfittato del fighissimo ventilatore Dyson del barista per ottenere un po’ di refrigerio (avrete  sicuramente presente quali sono, quelli ad anello che ti fanno pensare “ma da dove cazzo esce l’aria???”). Vi assicuro che non è stato nulla di insopportabile e, chi la pensa diversamente,  probabilmente appartiene al target a cui Studio Aperto dedica i propri servizi con i consigli per affrontare l’afa estiva.

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Dopo Mildand è il turno di Young Marco, un altro dj per cui nutrivo altissime aspettative, soprattutto dopo aver ascoltato numerose volte il set al Dekmantel, sempre per Boiler Room. Il giovane olandese si è comportato discretamente, maneggiando con maestria i piatti e uno splendido mixer Rotary, ma il suo set ha rappresentato, a tratti, una frenata rispetto alla corsa sostenuta di Midland. Mi sarei aspettato un suono anni ’80 più arrogante, sfacciatamente gaio, ma è stato un acuto a singhiozzi, un buon set che, probabilmente, sarebbe però stato più indicato per aprire la serata, quando il pubblico non era ancora sufficientemente ebbro o a proprio agio per scatenarsi. Al termine del suo set ritorna l’host di Boiler Room, questa volta accompagnato da Dj Harvey che si presenta con la giacca di una tuta anni’90 e degli occhiali imbarazzanti  che sembra aver rubato direttamente a Geordi La Forge di Star Trek. Ormai tutti nell’edificio, da Marco Maccarini vestito come un turista tedesco a Malcesine alla super hipster Chiara Biasi fino al trio di coreane che ballano in modo discutibile, fremono per l’ultima ora di musica. Vi anticipo che ho resistito solo mezz’ora. Se il battesimo di Dj Harvey in Boiler Room prometteva grandi cose, posso dire che il dj inglese mi ha deluso moltissimo: gli sono bastate due sole canzoni per distruggere totalmente l’atmosfera che si era creata: prima con un pezzo strumentale di percussioni di matrice africana e poi con un rivisitazione di Pure Imagination più insignificante della versione di Stefano Fontana. Fino al momento in cui sono rimasto in Boiler Room, DJ Harvey ha suonato delle tracce blande, introspettive, più adatte ad un viaggio notturno in macchina che alla conclusione di una serata di clubbing.

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Riflettendo, a freddo, sulla serata, ho grandi difficoltà a trovare delle lacune. A livello organizzativo è stato tutto impeccabile, dalla gestione degli ingressi (alla fine saranno entrate circa 800 persone), al bar, fino all’amplificazione; l’unico neo è rappresentato dal bagno e dal calore, ma siamo onesti, eravamo quasi tutti under 35, non eravamo dei vecchi piscioni non in grado di sopportare quelle condizioni. Il pubblico era composto da persone felici di presenziare all’evento, in gran parte appartenenti al settore e quindi genuinamente coinvolti dall’atmosfera e dalla musica. Proprio la musica, forse, è stata il punto debole della prima Boiler Room italiana: i nomi erano garanzia di ottima qualità, ma il running order anzichè creare un crescendo di euforia ed energia, una sorta di supernova musicale, ha creato una gaussiana che, con DJ Harvey, ha segnato il punto più basso, trasformando la serata in una nana bruna.