Punto uno: Solaris è il capolavoro fantascientifico del 1972 del regista Andrej Tarkovskij, incentrato sulle vicende di tre cosmonauti sovietici confinati in una stazione spaziale per approfondire gli studi a proposito del Pianeta che dà il titolo alla pellicola, superficie cosmica dalle proprietà riflettenti in grado di materializzare paure ed angosce che gli stessi scienziati proiettano all’esterno durante l’incosciente fase del sonno.
Punto due: Ben Frost, una delle menti artistiche più sofisticate in materia di sperimentazione elettronica e minimalismo sonoro, e Daníel Bjarnason, magistrale pianista, direttore e compositore d’orchestra islandese, nel 2011 fondono gli intenti per omaggiare il cinquantesimo anniversario del romanzo omonimo da cui il film è tratto, opera del 1961 dello scrittore polacco Stanisław Lem. L’anno successivo, Music For Solaris è completo e presentato all’Unsound Festival di Cracovia, incorporando una rielaborazione concettuale e musicale della colonna sonora originale del cult di Tarkovskij, stravolta attraverso una necessaria operazione promossa dallo stesso Frost, convinto che le liriche inizialmente composte non veicolassero a dovere la vorticosità dei significati che libro ed adattamento cinematografico, invece, sviscerano.
Punto tre: Brian Eno e Nick Robertson apportano il proprio contributo alla causa delineandone l’estetica, autori dei visual che, in corso di rappresentazione, scorrono sullo sfondo cristallizzando istanti chiave della narrazione senza una linearità precisa, ma volontariamente alimentando il caos negli occhi dello spettatore.
I tre fattori sommati risultano nello spettacolo andato in scena domenica scorsa nella magnifica cornice dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, connubio impeccabile d’eleganza e ricerca sonora, parte del programma dell’annuale edizione del Romaeuropa Festival, rassegna dedicata alle più illustri rappresentanze del panorama artistico contemporaneo. Music For Solaris attrae un pubblico numerosissimo, affollato di volti di tutte le età accorsi per motivi differenti, soddisfatti dalle versatili caratteristiche che l’opera in sé racchiude: dagli appassionati di produzione ambient, ai più fedeli amanti del repertorio sinfonico, incantevolmente offerto ai presenti dall’esecuzione dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (d’accompagnamento a Frost e Bjarnason, divenuta elemento imprescindibile per la riuscita dell’effetto catartico desiderato).
La platea colma tace religiosamente al calare delle luci in sala, ed il silenzio è suggestivo; l’Orchestra fa il proprio ingresso sul palco con la grazia geometrica di un ordine predeterminato, riservando il centro dell’attenzione al primo violino ed al Maestro Bjarnason al pianoforte, avviando l’accordatura degli strumenti che capovolge indietro nel tempo, come fra le mura d’un teatro in cui il sipario di velluto rosso si schiude sul primo Atto.
Ben Frost interviene dopo pochi minuti, rivolgendo alle prime file un inchino emozionato e sedendo fra chitarra elettrica e computer, sui quali si concentrerà assorto come nel flusso di una corrente, inarrestabile sino allo scontro con la riva. Non è semplice riprodurre discorsivamente un’armonia musicale, dei cui momenti è persino difficile tener traccia laddove si sia immersi nell’ascolto, lasciando scivolare il tempo e lo spazio.
Che la storia proceda, è comprensibile volgendo lo sguardo più in alto, alle scenografie visive tratteggiate da Eno, che alternano la definizione progressiva di pixel di grandi dimensioni nei volti dei protagonisti del film, a figure astratte – frammentate a partire dal dipinto I Cacciatori nella neve di Bruegel, centrale nella pellicola nell’intento di raffigurare l’unico trait d’union degli scienziati con la passata esistenza terrestre.
Ciò che ci lascia stupefatti è l’impercettibile scorrevolezza dell’accadere: filosoficamente, parleremmo di un tutto in divenire. Le immagini mutano senza che l’occhio nudo ne assuma effettivamente consapevolezza, tanto da doverci interrogare sulla possibilità che il viso che stiamo osservando abbia un’espressione arcigna per davvero, o triste, o malinconica, o se si tratti invece di un’illusione ottica di cui ci convinciamo.
Il potere di Music For Solaris è l’incontro dei cinque sensi e lo sviluppo di quelli enciclopedicamente non riconosciuti, delle percezioni e delle sensazioni, rendendoci recettori di un complesso impulso che ci abbraccia e ci culla.
Sembra di sentir passare un treno, ma si tratta delle percussioni; sembra che l’atmosfera si incupisca, ma è lo stridere della chitarra di Frost; lo scenario si costruisce tutto attorno, tanto vivido da consentire anche a chi non abbia visto il film di comprenderne le sequenze sceneggiate, sottolineando istanti di tensione e pathos contro attesi ritrovamenti della quiete.
Quarantacinque minuti dopo, sulle note più acute suonate in questo intervallo metafisico, l’opera si conclude, lasciandoci al contempo attoniti e deliziati mentre i visual si riassumono in una variazione cromatica dal rosso al giallo. Gli applausi scrosciano per una decina di minuti, accoratamente raccolti dagli esecutori di questo incantesimo che ringraziano, lasciano la scena, vi fanno ritorno e ringraziano ancora.
“Non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di specchi”: guardare a sé per la comprensione dell’altrui è il viaggio universale che ciascuno conduce esistenzialmente, le cui sorti e destinazione sono inevitabilmente sconosciute, ma irresistibilmente affascinanti.