Parma è una città piccola ma orgogliosa. Parlando con i suoi abitanti, prima o poi capiterà di sentirla definita come la Piccola Parigi. In un weekend di inizio novembre, ha invece scelto di trasformarsi in una piccola Torino: mentre gli occhi di un po’ tutti gli appassionati di musica erano sull’ormai istituzionale C2C, nella città emiliana si è aperto il Barezzi Festival, un evento sicuramente diverso nell’ordine di grandezza e nella direzione artistica, ma che al primo si avvicina nell’attenta scelta dei propri ospiti, nel suo spirito d’avanguardia e, anche, nella volontà di aprire luoghi meravigliosi della città di solito destinati a tutt’altro tipo di eventi.

Only In Italy! Thank you #barezzifestival #parma

Una foto pubblicata da Mr Benjamin Clementine (@benjaminclementine) in data:

Pleased Benjamin is pleased.

L’evento non è una totale novità: nel 2016 è infatti arrivato alla sua decima edizione, partendo dal piccolo paese di Busseto e piano piano allargandosi fino a coinvolgere tutta la provincia, portando sui palchi delle diverse location coinvolte artisti come Herbie Hancock, Battiato, i Notwist, Calexico, Rufus Wainwright e innumerevoli altri, sempre fedele alla volontà di non chiudersi in un genere ma invece esplorare con curiosità i confini musicali contemporanei dal jazz, alla classica, al rock e all’elettronica nelle loro più varie accezioni. In occasione del decennale, l’impressione è che il Barezzi abbia tentato di allungare il passo: il programma di quest’anno è stato ancora più ricco e completo, pieno di nomi di spicco del panorama italiano ma ancor di più internazionale.

Già a partire dai primi che hanno aperto la rassegna: Joshua Redman e Brad Mehldau.

"Hi Brad". "Hua!"

“Hi Brad”. “Hua!”

Ospitati sul palco di uno dei templi della lirica italiana, il Teatro Regio, non è stato di certo un inizio nazionalpopolare: i due mostri sacri del jazz hanno regalato uno spettacolo affascinante ma sicuramente non facile e alla portata di tutti (rivelante il commento di sfogo sentito provenire da una candida e ignara signora di mezza età, che a fine concerto commenta frustrata al probabile marito “bravi, ma una mezza melodia manco a pagarla”). Nonostante questo, il concerto è notevole anche per chi non è proprio ferrato sul genere (state guardando me?), grazie alle innegabili capacità fuori dal comune dei due e al carisma del sassofonista Joshua: a ogni sua entrata è riservata una vera e propria ovazione, e le sue movenze vagamente alla Celentano, uniti ai fugaci urletti con cui a volte tiene il ritmo dei pezzi, rendono il tutto molto coinvolgente.

La serata di giovedì si sposta al piano alto del teatro, il Ridotto, altro luogo che raramente ospita eventi di questo genere essendo una sala nata e dedicata alla musica da camera.

Da bravo parvenu, ho dimenticato il monocolo a casa.

Qui va in scena la prima serata del Barezzi After, e ad aprirla sono i Plaid, britannici di casa Warp, accompagnati dallo strumentista The Bee. Il giovedì di provincia non è proprio la condizione ideale per un sold-out, e infatti le presenze non sono tante. Ai Plaid non interessa, e nascosti dietro a un muro di video proiettati su piccoli schermi triangolari (a tratti inquietantemente massonici), scuotono le mura ottocentesche della sala con un mix di Idm, Ambient e Synthwave davvero mutante e ipnotico.

Ode a voi, Maestri Venerabili

A chiudere la nottata, di fronte a gli ormai pochi e sparuti spettatori, gli Optogram, progetto di musica elettronica nato localmente ma già protagonista di show di portata ben maggiore. Il loro set prosegue sui binari posati in precedenza dai Plaid, anche se le davvero esigue presenze in sala non rendono onore al loro impegno.

Venerdì, seconda giornata del festival, si apre con un concerto gratuito in un altro luogo dal grande fascino, la chiesa sconsacrata di San Tiburzio. Sul palco il blues postmoderno di L.A. Salami, purtroppo l’orario infame di inizio (le 5 del pomeriggio) rendono difficile la partecipazione (se non previo licenziamento) sicuramente a me, ma si suppone anche a molte altre persone. Chi era presente parla di un ottimo spettacolo, le foto paiono confermarlo.

Una delle foto che paiono confermarlo.

Tocca poi agli Aucan, per il primo (e come si vedrà, unico) concerto all’aperto della rassegna. Il duo italiano, relegato sotto la scalinata di una piazza Ghiaia a dire il vero piuttosto distratta, picchia e si affanna con passione, il loro show, da tarda notte più che da orario aperitivo, riempie l’aria di bassi e fumo che però, visto luogo e stagione, tende a trasformarsi in una rassicurante nebbia novembrina.

In serata, ci si sposta di nuovo al Regio, dove va in scena quello che, a detta di molti, è il concerto più memorabile di tutto il festival. Merito è di Benjamin Clementine, pianista, cantante, poeta, showman e probabile paziente borderline: si siede al piano scalzo sovrastando la scena con la sua inconfondibile capigliatura, e accompagnato da un quintetto d’archi rapisce ed esalta un teatro finalmente pieno. Oltre a stupire tutti con le sue canzoni e con la sua voce da tenore, si fa notare anche per il carattere istrionico e per i siparietti che camminano sul sottile limite fra il divertente e l’imbarazzante: a volte durante una canzone sembra bloccarsi all’improvviso, lasciando il pubblico in un’interrogante attesa, mentre sul finale confeziona un vero e proprio spettacolo dentro allo spettacolo.

Succede quando qualcuno, dal pubblico, durante un’ovazione lancia in aria dei fogli di carta. Benjamin, con tutta calma, fa scendere il silenzio, si lancia dal palco con un balzo che rischia di causargli un qualche infortunio serio, prende i fogli in mano e pretende di sapere cosa c’è scritto. Non ottenendo risposta, obbliga una ragazza a salire sul palco per leggerli di fronte a tutti, poi, non ancora soddisfatto, decide di improvvisare una sorta di karaoke, chiedendo al pubblico qual è secondo loro una grande canzone italiana. Alla risposta Caruso, torna al piano ed esegue la canzone. Ovviamente in modo semidivino.

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“Te vojo bene assaje”. Anche noi, Benjamin

Dopo questo quasi interminabile intermezzo, il concerto prosegue in forma più canonica, e purtroppo si conclude dopo poco più di un’ora, lasciando il pubblico estasiato ma leggermente amareggiato.

Ma il tempo per discuterne non è tanto: la nottata prosegue di nuovo al Ridotto, con lo spettacolo degli Aaron. Il gruppo francese si fa notare muovendosi tra un electropop dalle tinte 80’s (non per niente una loro canzoni, Blouson Noir, è stata inserita nell’episodio San Junipero della nuova stagione di Black Mirror) e momenti in cui i ritmi si fanno più celebrali e meno tirati, andando vicino ai suoni dei Radiohead. Il frontman cerca l’attenzione del pubblico buttandosi letteralmente in mezzo ai presenti, riuscendo in questo modo a smuovere le persone fino a quel momento abbastanza bloccate.

Un ottimo preambolo per un’altra sorpresa del Barezzi: sono i francesi Acid Arab, che nelle loro canzoni uniscono in maniera spettacolare basi acid house con suoni provenienti dal nordafrica e dal medio oriente. Il loro set riesce in un’impresa davvero unica, quella di trasformare il massimo tempio della buona borghesia di provincia in una sorta di souk arabo, seppur occidentalizzato a dovere.

على أيدي aka Sulemani!

Purtroppo le buone norme borghesi tornano a chiedere tributo in conclusione di serata, obbligando a chiudere il tutto all’una e mezza, decisamente presto sia per la tipologia di evento, sia per portare a pieno compimento la situazione che i due dj erano riusciti a creare fino a quell’ora.

Terzo giorno del festival: un giorno piovoso, che costringe a spostare i primi concerti in programma sia di luogo sia di orario. A salire sul palco della sala Ipogea, gioiellino contemporaneo costruito sotto l’Auditorium di Renzo Piano, è una line up completamente all’insegna del post rock all’emiliana: iniziano i Winter Dies In June, seguiti dai Julie’s Haircut, poi tocca ai Giardini di Mirò. L’evento, complice l’ingresso gratuito e forse il clima che invita a cercare un riparo, è uno dei più apprezzati del festival, sicuramente è il più apprezzato del giorno. Dopo di loro, infatti, nonostante i nomi più di richiamo in programma (Eu Bolos, Gold Panda, Clap! Clap!), la serata fa fatica a decollare.

Probabilmente le cause saranno varie: è la serata che, come genere, risente maggiormente della concomitanza del C2C, che senza dubbio avrà portato altrove parte del pubblico potenzialmente interessato non solo cittadino, ma anche delle regioni circostanti.

Allo stesso tempo, è qui che si sono resi più evidenti quelli che, attualmente, sono ancora i limiti del festival. Di comunicazione, prima di tutto: a non tutti era chiaro che era possibile proseguire la serata gratuitamente per chi fosse già entrato a partire dai primi concerti. Ma anche più strutturali: ad esempio, pur chiamandosi festival, il Barezzi risente della mancanza di un biglietto cumulativo di ingresso, e i prezzi non proprio popolari rendono l’acquisto di più biglietti della rassegna probabilmente proibitivo per la maggior parte delle tasche (l’esistenza di un ingresso cumulativo se non altro parziale, comprendente i 3 after, era vanificato da un malfunzionamento del sito in fase di acquisto e la necessità di una procedura bizantina per ottenere l’abbonamento tramite mail).

Comunque, lo spettacolo non si può dire deludente, anzi: con Gold Panda, ovviamente, a farla da padrone sono le atmosfere chill, cerebrali e rilassate, Clap! Clap! è invece un’intrattenitore nato, si dimena senza mai fermarsi dietro ai piatti e sorprende pezzo dopo pezzo, facendoti viaggiare da una parte all’altra della terra nel giro di un tocco di mixer.


Fermata di Capo Verde. Per i passeggeri diretti in Namibia, attendere la prossima canzone.

È domenica, ripreso dalla sbornia (musicale, che credete), è il momento di inoltrarci nella profonda bassa padana. Più precisamente a Zibello, ridente paesino famoso per il culatello e l’umidità più che per la vibrante movida, e infatti alle 4 del pomeriggio la via centrale si presenta così

apocalisse zombie in 3… 2…

Cosa mi ha spinto qui? Alle 6 del pomeriggio, fra le mura del piccolissimo teatro del Palazzo Pallavicino, suona Aeham Ahmed. Per chi non ne avesse mai sentito parlare, Aeham è un profugo siriano, diventato famoso come il pianista di Yarmouk. Yarmuok è il principale campo profughi vicino Damasco, lì, un giorno, Ahmed ha deciso di portare il suo pianoforte in strada, per alleggerire la vita quotidiana degli abitanti del campo con la sua musica. Questi sono alcuni video che testimoniano quelle giornate:


Scappato dalla Siria seguendo la rotta balcanica, Aeham è arrivato in Germania. Lì è stato accolto ed è diventato un simbolo, iniziando a suonare nei teatri più importanti raccontando la sua storia. Quella che racconta anche qui: una storia fatta di sofferenza, di senso di colpa per essere riuscito a fuggire al contrario di molti suoi amici, e di grande speranza, che per lui risiede nell’arte e nella musica, capace di salvarlo dalla follia nei momenti più difficili. Ascoltare la musica di Aeham, la stessa che suonava nel campo profughi, e le parole che la accompagnano, dove parla delle persone e della vita che ha lasciato in Siria, è un’esperienza che travalica quella di un semplice concerto, ed è senza dubbio una degli eventi più interessanti e profondi che la rassegna è riuscita a regalare.

Salutato Aeham e il suo pianoforte, il festival si sposta di alcuni chilometri più lontano, a Busseto per l’esattezza, dove è il momento di Enzo Avitabile. Momento che mi perdo, data l’estrema vicinanza temporale con l’evento precedente, e di cui quindi mi limito a fornire uno foto.

Nella foto: persone, teatro, Enzo Avitabile

Il weekend è finito, ma il Barezzi riserva ancora un’ultimo regalo. È lo spettacolo di Elio Germano e Theo Teardo, Viaggio al centro della notte. Elio non ha bisogno di grandi presentazioni, Theo Teardo è il compositore che lo accompagna con loop station e chitarra in questa occasione, insieme a un gruppo di ragazze agli archi. L’opera è un reading degli scritti di Céline, autore abbastanza controverso degli anni ’30, ed è allestita in maniera essenziale: in scena solamente un tavolo, a cui siede Germano, e i musicisti.

Lo spettacolo si sviluppa come un duetto: Elio è bravissimo a interpretare e dare voce alle scene drammatiche contenute nell’opera, e alla fine di ogni paragrafo lascia spazio alla musica di Teardo, che passando dal trip hop, all’industrial, a veri e propri muri lancinanti di suoni, è perfetto nel sottolineare l’orrore per la guerra e in generale per la condizione umana che escono dalle pagine di Céline.

Con questa esibizione breve, coincisa e intensa, si chiude la decima edizione del Barezzi Festival. Un’edizione che ha dimostrato quanto questa rassegna stia crescendo, anno dopo anno. L’appuntamento è all’anno prossimo, con la speranza che il festival riesca sempre  più ad acquistare un posto di rilievo nella scena musicale italiana e non solo.

(In realtà, il Barezzi chiude ufficialmente il 14 novembre con un grande evento, la prima e per ora unica data italiana di una delle più grandi figure della musica colta contemporanea, Philip Glass. I biglietti li trovate qui).

Si ringrazia Elisa Contini per le foto.