Io non me lo ricordo cosa stavo facendo il 28 settembre 1999.
Considerando che avevo otto anni, molto probabilmente ero a scuola a imparare le tabelline, o a giocare a palla per strada, o in piscina per il corso di nuoto, o a casa malato.
Io non me lo ricordo a cosa stavo pensando il 28 settembre 1999.
Considerando che avevo otto anni, molto probabilmente non stavo pensando a niente che non fosse una cosa bellissima. Avevo anche la fidanzatina, ci tenevamo per mano, di nascosto, in cortile.
Io non me lo ricordo, ma il 28 settembre 1999 usciva l’omonimo debutto degli American Football, un disco culto che, con il successivo (distantissimo) di-nuovo-omonimo lavoro del 2016, ha unito parecchie persone sotto il palco del Magnolia di Segrate per il primo concerto della band dell’Illinois sul suolo italico.

A distanza di quasi vent’anni, quelle memorie là, quelle del 1999, sono flebili, fioche, lontane. Eppure American Football, proprio come il suo successore, sa essere vivo, sa mettere in musica, ancora oggi, l’universalità dei sentimenti, quelli più puri, quelli del dolore.

La voce di Kinsella è sempre sincera, è la voce comune di una persona che canta per necessità, fregandosene di non avere le capacità canore che si confanno a un frontman: la voce di Kinsella diventa così la voce di un amico. Per quasi 90 minuti i polpastrelli corrono sulle tastiere delle sei-corde, intrecciando quelle melodie che spesso ci hanno cullato, i fiati sferzano l’aria con stoico rigore, ai limiti del sacrale, ogni nota di basso prende il petto, i controtempi della sezione ritmica sono semplicemente allucinanti.
Nell’insieme trova linfa vitale una commistione di sentimenti (emo) e tecnica (math) difficilmente rintracciabile altrove.

E così, tra infiniti cambi di chitarre, mentre si susseguono senza soluzione di continuità Honestly e I’ve Been So Lost for So Long, Give Me the Gun e I’ll See You When We’re Both Not So Emotional, I Need a Drink (or Two or Three) e Stay Home, The One With the Wurlitzer The One With the Tambourine, passando per My Instincts Are the EnemyHome Is Where the Haunt Is e l’intro di The Summer Ends, fino alla chiusura devastante di Never Meant, ognuno reagisce in maniera diversa. C’è chi imperscrutabile osserva il palco, chi prova a tenere il tempo con scarsi risultati, chi muove la testa ad occhi chiusi, chi abbraccia i vicini e canta.
Tutto scorre veloce nelle menti dei presenti: il passato, gli amori, quelli veri e quelli un po’ meno veri, le devastanti sofferenze, i litigi, le rotture, le malinconie adolescenziali, il lavoro, la gioventù lontana, il futuro incerto.

Palliativo di ciò sono i volti tutt’intorno, certezza banale ma pur sempre ferrea che edulcora le circostanze: chi più chi meno, soffriamo tutti, è nella nostra natura.
Per fortuna, talvolta, ci ritroviamo insieme sotto un palco, ad esorcizzare il dolore, a cucirci le cicatrici a vicenda.
E se quel palco è calcato da una band come gli American Football, una band a cui dobbiamo così tanto, beh, meglio ancora.

Foto di Sebastiano Orgnacco.