Oggi vi aggiorniamo con qualche breve recensione sugli ultimi album interessanti usciti nelle ultime settimane.

The Drums – Brutalism

A 10 anni dall’esordio disinvolto e surf-oriented della band di Brooklyn le cose (e le formazioni) sono cambiate e oggi ci troviamo davanti ad una one man band che, abbandonate le velleità morriseyane, è arrivata al suo secondo album dopo la separazione da Jacob Graham.
Brutalism è contraddittorio e frammentato e nemmeno il mix di Chris Coady (Beach House, Future Islands, TV on the Radio) riesce a togliere del tutto l’eccesso di alcuni brani sovraccarichi di loop ed elementi elettronici fuori luogo (Pretty CloudKiss It Away e Blip of Joy). Nella prima parte, invece, tutto combacia. Il coraggio di alcune scelte artistiche spicca in Brutalism, 626 Bedford Avenue e Loner, brani che si inseriscono senza stonare nello schema chitarra/synth che già conosciamo almeno da Encyclopedia.
Di contro, le liriche rappresentano la parte migliore di un lavoro chiaramente autobiografico che assume per tutta la sua durata le fattezze di una seduta psicanalitica utile, soprattutto a chi si sta sfogando e un po’ meno a chi ascolta. Brutalism cerca di raccontare proprio la sottile linea che separa gioia e dolore; il desiderio dell’altro e l’elaborazione del lutto. In questo senso l’album è molto umano, vivo. La sincerità di Johnny Pierce è totale e, come da egli stesso ammesso, è la prima volta che lo vediamo senza maschera. Il problema, forse, è proprio questo. L’eccessiva manifestazione della propria vulnerabilità, tipica e lodevole dal punto di vista individuale, ha però inciso negativamente su un lavoro troppo personale e confusionario che sembra destinato ad una persona sola più che ad un pubblico.

Voto: 5.5 – Giuseppe Mangiameli

Aldous Harding – Designer

Ah, strana camaleontica Hannah Harding. Due anni di silenzio da Party (2017) e lei che fa? Torna con un signor pezzo e un signor video – The Barrell, in cui indossa enormi platform boots, suona le maracas in mutande e canta cose senza senso apparente su uova, colombe e furetti. Come fu per Party, anche Designer vede in produzione John Parish (PJ Harvey, Eels) e come ogni album della Harding che si rispetti il risultato è selvaggio, criptico, delicato e inquietante. Perchè? Perchè Hannah Harding è una, nessuna e centomila voci, è un saliscendi che dalle altezze di Fixture Picture arriva fino alla profondità di Pilot.  L’ha detto anche lei, dietro a Designer non c’è logica che tenga: “Il bello di quel video (The Barell) è che non succede niente, c’è solo qualcuno che vuole disperatamente trasmettere qualcosa. E questo in fondo è tutto quello che cerco. L’importante è che ci sia un sentimento, prima di tutto”. E questo vale per un video come per l’album tutto.

Voto: 7.6– Ilaria Procopio

Shlohmo – The End

Cosa succederebbe se si potesse dare un suono all’apocalisse ed alle sue conseguenze? Ebbene, una prima risposta la potremmo ricavare da The End, terzo album di Shlohmo. Un album che combina, senza perdere in personalità, le due anime di Henry Laufer descritte di Dark Red e Bad Vibes che vengono sintetizzate in una forma innovativa di glitch carico di elementi e distorsioni.
The End rappresenta la parte musicale di una letteratura che negli ultimi decenni ha messo al centro la visione distopica del mondo e che è stata protagonista di innumerevoli produzioni di natura catastrofista. Un quadro terrificante del futuro che si è accanito, in particolare, con la città, pensata quale incarnazione di tutti i mali della società e per questo destinataria di una crudeltà distruttiva devastante. In questo stato caotico delle cose, per arrangiarsi e sopravvivere bisogna raccogliere quello che si trova qua e là. Un aspetto descritto minuziosamente nell’album che, per tutti i suoi 13 brani, è tutto un raccogliere pezzi sparsi, campioni, rumori e suoni per assemblarli in qualcosa che abbia ancora un senso nonostante la desolazione. Così come estremamente meticoloso è il racconto degli stati d’animo di chi vive una situazione estrema. La quiete (Staring at a Wall) si alterna al panico (Panic Attack) e viene intervallata da momenti di alienazione pura; una sorta di distacco e rassegnazione che lui stesso ha definito insularità (The EndHeadache of the Year).
Con questo suo nuovo lavoro Shlohmo guarda il mondo che va a pezzi e invece di scappare decide di raccontarlo in tutta la sua crudeltà e complessità, mostrando ancora una volta la sua capacità di accettare e di proiettarsi nel futuro, anche quando questo vuol dire scendere all’inferno.

Voto: 7.4 – Giuseppe Mangiameli

Fontaines D.C. – Dogrel

Negli ultimi anni il punk sembra essere rinato come strumento sociale per dare voce agli ultimi, tornando nelle mani della working class. Nel caso dei Fontaines D.C. l’attenzione si sposta dall’Inghilterra all’Irlanda del Sud, l’accento è quello dublinese, il mezzo è diverso, il fine è simile. All’apparenza Dogrel è un album di debutto fratello degli IDLES e degli Shame, ma è al terzo, quarto ascolto che la ripetitività di brani come Too Real, Hurricane Laughter, Big, Boys in the Better Land diventa corale, permanente. Questo perché il talento dei Fontaines D.C. non è tanto negli strumenti quanto nelle mani del frontman Grian Chatten che, con un timbro perforante à la Mark E. Smith, prende ispirazione dalla tradizione di poesia working class (Doggerel) che dà il titolo all’album per narrare il quotidiano con uno stile ed una metrica eccezionali, in cui riecheggiano – solo vagamente, tranne sul finale con Dublin City Sky – le ballate irlandesi. Dogrel dà voce alle contraddizioni di una generazione cinica ma incapace di negare le proprie radici, con un piede nel presente e uno nel passato.

Voto: 7.6 – Claudia Viggiano

Big Thief – UFOF

Adrianne Lenker, Buck Meek, Max Oleartchik e James Krivchenia – la non convenzionale “famiglia” Big Thief –  hanno deciso con UFOF (l’ultima F sta proprio per Friend) di approcciare la materia forse più complicata – il soprannaturale – maneggiandola squisitamente bene, tra anelli di Saturno (Cattails), angeli (Open Desert) e costellazioni (Strange). Non c’è un singolo vero e trascinatore com’era stato probabilmente Shark Smile ai tempi di Capacity (2017), ma ogni pezzo è un microcosmo di una bellezza disarmante: dalle inaspettate chitarre sul finale di Contact al delicato esistenzialismo di Terminal Paradise (See my death become a trail/ and the trail leads to a flower). Etichettarlo come indie-folk – bucolico, oscuro, etereo, aggettivatelo come volete – è come la fatica di Sisifo, inutile, perchè UFOF parla sussurra e suona in un linguaggio tutto suo, curioso e primordiale. Un disco che si avvicina in punta di piedi, con cui si familiarizza piano piano, e di certo uno degli album che finirà in cima alle classifiche di questo 2019.

Voto: 8.2 – Ilaria Procopio

Weyes Blood – Titanic Rising

Raramente ci si trova di fronte a un disco bello come Titanic Rising: di solito si parla di bello razionalizzandolo sul piano stilistico, dei testi, delle melodie. Il quarto lavoro di Natalie Mering è invece uno di quei rari album la cui bellezza è maestosa e travolgente, di quelle che ti impediscono qualsiasi razionalizzazione critica e finisci per dire, semplicemente: che bello. Potremmo soffermarci a parlare di quanto Titanic Rising sia ispirato al pop anni ’70, potremmo citare i richiami ai Beatles (George Harrison in primis) come i parallelismi con grandi cantautrici come Joni Mitchell e Nico, potremmo sottolineare quanto la penna di Weyes Blood sia raffinata al pari della sua musica e della sua voce – e sarebbe tutto valido, ma Titanic Rising è uno di quei pochi lavori che dissezionare significa limitare, un’esperienza immersiva che vive della sua totalità.

Voto: 8.0 – Claudia Viggiano