Oggi vi aggiorniamo con qualche recensione breve sugli ultimi album interessanti usciti recentemente

Hot Chip – A Bath Full Of Ecstasy

In pochissimi possono dire di conoscere qualcuno che sia rimasto deluso dagli Hot Chip, ma vale anche il contrario. Nonostante una carriera quasi ventennale, nonostante alcune perle indie-danzanti, molte collaborazioni ed altrettanti remix, non sono mai diventati veramente mainstream. Con a Bath Full of Ecstasy, la band londinese prova a fare quel passo che sei album non sono riusciti a fare, partendo da ciò che gli riesce meglio. Del resto, con un titolo del genere puoi solo pensare al dancefloor e al groove e, in questo senso, la band riesce a ridare smalto a una discografia che si stava appiattendo e specchiando su se stessa. Da un lato vengono quasi del tutto abbandonate le sonorità DFA e dall’altro,  al tradizionale 4/4 houseggiante, vengono aggiunti tratti psichedelici, sonorità anni ’70 e varianti offerte dalle mani sapienti del compianto Zdar, che conferiscono ad alcune tracce una luccicanza speciale (Spell, Echo, Hungry Child). Muscolare, energico e pronto per i soliti remix da pista, sa come farsi voler bene. Tuttavia, sebbene (alcuni) singoli brani trasudino freschezza, l’album nel complesso non lo fa. E quello che avrebbe voluto essere un balzo in avanti, rimane un tiepido passo che non lascia tracce evidenti. Nemmeno se condisci tutto con un po’ di droga.

Voto: 6.3

Lafawndah – Ancestor Boy

Quello che apriamo, quando teniamo in mano Ancestor Boy, è un romanzo geografico che racconta l’identità personale, tra traslochi e nuove sfide. Il debut album dell’artista iraniana Lafawndah non la definisce mai del tutto, ma è una storia che non conosce linee di confine e che trascende gli elementi naturalistici presenti in ogni sua pagina. Dai suoni ai colori e nelle chiavi narrative a mezza via tra terreno e divino, si mescolano il mondo arcaico e quello di domani. Per raccontare questo incontro c’è la produzione di Nick Weiss (Teengirl Fantasy), ADR e L-Vis 1990 che hanno scelto le percussioni come catalizzatore ed amplificatore di una voce calda e fortemente espressiva. I drum kit complessi e frammentati mutano forma in più di un’occasione: si respirano le pulsioni mediorientali (Tourist, Parallel) e quelle vorticose di Uniform. L’album non ha lineamenti precisi e oscilla, al variare del vento, dalla moombahton all’elettronica tribale, in un crescendo, tuttavia, non sempre naturale e dinamico. C’è dell’avant pop a là FKA Twigs (Storm Chaser), ma anche dell’ambient simil acustica (Joseph), come se ogni brano, visto da vicino, rivelasse un microcosmo al suo interno. Nel complesso suona sofisticato, ma le domande che (si) pone sono fin troppe. Come a dire che, forse, è l’interrogativo l’unico vero punto di contatto tra noi ed il mondo che ci circonda.

Voto: 7.5

Amyl and The Sniffers – Amyl and The Sniffers

Amyl and The Sniffers, debut-album omonimo della band australiana uscito su Rough Trade, è un lavoro incendiario che prende fuoco immediatamente e che propaga le fiamme con una forza indomabile anche per la camionetta dei pompieri. Tuttavia, per evitare fraintendimenti, è opportuno chiarire subito che quando quando si affrontano progetti come quello degli Amyl and The Sniffers, ben poco può essere definitivo originale, essendo gran parte del lavoro di natura derivativa. Ma non c’è niente di male ad essere derivativi, l’importante è farlo con personalità. Molto più Sex Pistols che Stooges, rispetto agli ep precedenti, che vengono frullati in un energy drink che spacca le ossa, ma soprattutto un livello di produzione elevatissimo che trasforma chitarre sporchissime in vere e proprie deflagrazioni. C’è un muro di chitarre e bassi in ognuna delle undici tracce, che raccontano il meglio del punk dai ’70 ai primi Arctic Monkeys. E se, talvolta, si tenta di rallentare con una ballad amorosa (Angel), si viene nuovamente travolti da brani come Got You, Monson Rock o Punisha che spinge la band fino all’hardcore punk. Quanto a personalità, invece, basta guardare Amy Taylor, una che non ha paura di rompersi le ginocchia sul palco e che tiene tutta la band nel palmo della mano.

Voto: 7.2

CHAI – PUNK

Le CHAI non vogliono essere prese in giro e lo chiedono con i punti esclamativi nel brano centrale del loro album PUNK (This is Chai): “Don’t kidding me…this is CHAI“. Le quattro ragazze di Nagoya, infatti, hanno preso molto sul serio un progetto nato all’Università e con il secondo lavoro sono riuscite anche a trovare apprezzamenti nel resto del mondo. Contrariamente all’indole conservatrice dei loro compaesani, questo è un prodotto da esportazione. Il loro concept dichiaratamente neo kawaii intende rompere canoni di bellezza, pregiudizi e stereotipi patriarcali, ma anche quelli musicali sul j-pop. Ne esce un lavoro variopinto, che mescola colori caldi e freddi, lasciando sempre in rilievo la tonalità rosa. Non è certamente un rosa shocking, come il titolo dell’album vorrebbe far intendere. Quello di PUNK è, in realtà, una gran caciara di pop brillante e ballabile, con testi mezzi in inglese e mezzi in lingua originale, influenzato non dalle chitarre, ma più da Ti Amo dei Phoenix di un paio di anni fa. Le influenze faranno arrabbiare i puristi del genere, essendo infatti più vicine a The Tings Tings Le Tigre, come se queste quattro ragazze volessero dirci che, in realtà, il punk è solo una forma di ribellione a prescindere da suoni ed immagini preconfezionate.

Voto: 7.7

Georgia Anne Muldrow – VWETO II

Dopo una breve sortita sull’etichetta di Flying Lotus, la polistrumentista los angelina Georgia Anne Muldrow, sceglie di tornare alle origini artistiche per il suo diciottesimo album VWETO II (sequel di VWETO del 2011). In quest’ultimo lavoro si respira sin da subito la ferma volontà di rifiutare mode e tendenze e di concentrarsi su tutta la gamma funk-jazzista e di osservarla muoversi e roteare come in caleidoscopio. Ci sono incursioni nel jazz e nella disco fantascientifica (Big Mama Africa Jam, Mary Lou’s Motherboard) che ti portano direttamente dentro il futuro, in mondi lontanissimi che verranno scoperti solo tra 200 anni. Ma c’è anche tanto groove, vedi alla voce Old School Fonk o Bronx Skates, che interrompe le fasi mentali e più viaggiose per andare verso un livello più spinto e ballabile. L’album è stato ripulito del tutto dalle parti vocali per accentuare ancora le linee di basso e renderlo il più fluido possibile. Una sfida sicuramente vinta che ci lascia addosso un senso di sublime e di connessione con gli strumenti da vivere dal primo all’ultimo minuto. Più e più volte, per assaporarne colori e sfumature.

Voto: 7.0

Lolo Zouaï – High Highs to Low Lows

Quello di Lolo Zouaï è un esordio concreto e decisamente contemporaneo. Dopo il primo ascolto del suo album High Highs to Low Lows (che ha trovato asilo anche in RCA), è abbastanza immediato prendere il suo santino e metterlo accanto a quello di Ariana Grande (Out the Bottle) o Billie Ellish (Caffeine) e più si va avanti negli ascolti più sono le annotazioni a matita che si segnano accanto al suo nome. C’è questo, c’è quello. Elementi distintivi e qualità uniche che si colgono in brani più sperimentali come Moi e che rendono l’album un collage di sfumature ed emozioni. Le tracce sono ben organizzate e masterizzate alla perfezione come il pop attuale richiede. Questa formula vincente di produzione esalta, da un lato la voce sensuale e svogliata della cantante franco-algerina e, dall’altro bassi e synth che guardano al futuro del R&B, fino a Beaucoup, ballata folk in francese che chiude l’album con eleganza, mettendo in mostra tutto il suo talento. Anche sul songwriting si bada al sodo delle cose, sia che si tratti di sentimenti, sia che si tratti di come ci sente alla firma di un contratto (da qui il nome dell’album). Se la vita è un ottovolante di alti e bassi, l’album di Lolo Zouaï è sicuramente un parentesi felice che non scende mai sotto la soglia della felicità.

Voto: 7.1