Oggi vi raccontiamo velocemente i nostri pensieri su una manciata di dischi usciti negli ultimi giorni: il ritorno dei Royal Blood e dei Ride che non ci hanno convinto molto, Big Boi degli Outkast che non invecchia mai, Com Truise che rischia di steccare con il suo secondo album e tanto altro.

Palehound – A Place I’ll Always Go

Il progetto di Ellen Kempner, alias Palehound, dopo un bellissimo esordio quale Dry Food cerca di assestarsi in quella nicchia tra l’alt-rock 90s (Breeders su tutti) ed il noise pop riottoso (Helium ma soprattutto i più recenti Speedy Ortiz) senza tralasciare pezzi ancor più catchy (Turning 21 lo dimostra).
Il problema vero del disco come lo aveva il suo predecessore è l’essere legato a doppio filo agl’amici Speedy Ortiz: Ellen ha una voce troppo simile a quella di Sadie Dupuis ed anche le sonorità non si discostano di molto e sebbene abbia delle intuizioni migliori degl’Ortiz, ne escono dei pezzi ritritati più e più volte (Hunter’s Gun, Carnations) e nei momenti in cui mostra una personalità propria i pezzi non riescono a svoltare: l’acustica Pixie-ana Silver Toaster, la lenta e stanca Backseat e non bastano la conclusiva At Night I’m Alright With You con drum machine e organo simil-Beach House ed il singolo Room, forse l’unico momento che può riportare alla mente lo straordinario pezzo che era Molly.
Questo A Place I’ll Always Go delude le aspettative che mi ero posto dopo i vari live dove la Kempner aveva dimostrato di poter eludere le melodie anacronistiche che la limitavano, non si può di certo parlare d un lavoro negativo ma è un passo indietro inatteso.

Voto: 6.5 – Gianluca Marian

Royal Blood – How Did We Get So Dark?

Dopo l’omonimo album d’esordio datato 2014 osannato dalla stampa inglese e le onoreficenze ricevute da fan d’eccezione come Tom Morello e Jimmy Page i Royal Blood tornano la classica difficilissima seconda prova. Tranquilli, nessun grande stravolgimento: i riffoni di Mike Kerr (tanto cari a Josh Homme) e la precisa violenza del drumming di Ben Thatcher sono sempre presenti ed entusiasmanti, anche se qualcosa è effettivamente cambiato. Ci scommetto quello che volete che un produttore deve essere entrato in sala con una maglietta inneggiante la scritta É giunta l’ora del Mainstream esclamando “Ragazzi, ma perchè non suonate un po’ più piano? Qualcosa di più lontanamente più melodico?”. L’album apre con la title-track che, sebbene sia un buon pezzo, fa rimpiangere tanto Out Of The Black. I singoli Lights Out e I Only Lie When I Love You sono di pregevole fattura e non tradiscono le aspettative,e fanno da preambolo ad una parte centrale decisamente sottotono e noiosa che sembra voler approcciarsi ad un pubblico più vasto con scarsi risultati. Per fortuna arriva a risollevare il tutto quella sberla in faccia di Hook, Line & Sinker, il pezzo più riuscito e devastante e, guarda a caso(neanche tanto) quello che ci riporta alla ferocia di Figure It Out e Ten Tonne Skeleton. How Did We Get So Dark? è un mezzo passo falso ma rimane un album tutto sommato godibile, con quei 3 pezzi che salvano il tutto e riformulano la domanda dell’album: Perchè non continuiamo a fare quello che ci viene bene, senza cercare di voler piacere a tutti?

Voto: 6.2 – Federico Gabellotti

Kevin Morby – City Music

Dopo la gavetta come bassista dei Woods, la carriera solista di Kevin Morby ha continuato a solidificarsi con ben quattro dischi in quattro anni. Dopo il meritato successo di Singing Saw dell’anno scorso, ecco che arriva puntuale City Music, altro piccolo gioiello cantautoriale orgoglioso di suonare come un disco d’altri tempi ma senza rinnegare un certo piglio contemporaneo. L’album dimostra la dimestichezza di Morby nello spaziare tra rock’n’roll, folk, blues, ballad e incursioni sghembe à la Lou Reed (Crybaby). A spiccare sono i brani dagli arrangiamenti ricchi e deliziosi, che siano guidati da un organo (Come to Me Now), da un tocco folk delicato (Night Time) o da intermezzi strumentali robusti come nella title-track City Music.

Voto: 7.0 – Claudia Viggiano

Ride – Weather Diaries

Sono anni di reunion, e tra i colossi dello shoegaze i Ride erano praticamente gli ultimi a mancare all’appello del reunion album. Weather Diaries arriva dopo 21 anni di attesa, ed è un’opera che, seppure con qualche pecca, riconferma non solo il talento compositivo del quartetto inglese, ma anche una rinnovata volontà di stupire e di non cicatrizzarsi. Se la prima parte del disco si lascia corteggiare dal britpop e dall’elettronica in modo forse non troppo convincente (All I Want), è soprattutto nel cuore del disco che ritroviamo i tanto amati chitarroni e le atmosfere dreamy della band (Home Is a Feeling), spesso infoltiti di virate imprevedibili (Rocket Silver Symphony, Integration Tape), mentre sul finale domina l’aspetto cantautoriale. Un ritorno tanto atteso quanto interessante, che forse una produzione migliore (qui affidata ad Erol Alkan) avrebbe potuto mettere meglio a fuoco.

Voto: 6.5 – Claudia Viggiano

Young Thug – Beautiful Thugger Girls

In questo nuovo lavoro Young Thug continua la sua personale evoluzione fregandosene delle mode, ma cercando piuttosto di creare qualcosa di originale. Il suo modo di cantare e rappare rimane unico, sempre con quella cadenza più simile ai giamaicani che agli altri rapper di Atlanta, unendo musicalmente trap, r&b, dancehall e country/folk (Me or Us contiene un sample di First Day Of My Life di Bright Eyes) mentre i contenuti riguardano amore e fedeltà, ma sempre a modo suo (Thinkin’ ‘bout masturbating to your nudes). Piacevole la collaborazione con Future in Relationship, ma i brani migliori rimangono quelli firmati solo da lui dove riesce a dare il meglio di sè. Do You Love Me, Take Care, Me Or Us tra gli highlight del disco, anche se è difficile scegliere i migliori perchè è un lavoro coeso dall’inizio alla fine e le canzoni preferite possono cambiare di ascolto in ascolto. Young Thug è un personaggio completamente fuori dagli schemi, motivo per cui probabilmente non ha ancora ottenuto lo stesso successo dei vari Migos, Travi$ Scott e Future.

Voto: 7.5 – Mobutu’s Butcher

Big Boi – Boomiverse

Il terzo album di Big Boi degli Outkast arriva a distanza di 5 anni da Vicious Lies & Dangerous Rumours e non delude certo le alte aspettative. Come da tradizione tipicamente south, è un disco dove i bassi ti prendono a schiaffi, composto da 12 brani in cui il quarantaduenne di Savannah dimostra ancora una volta tutta la sua versatilità, muovendosi agevolmente tra produzioni rap, pop ed elettroniche. I primi due singoli sono l’r&b funk Mic Jack (prodotto da Dj Dahi e Dj Khalil) che vede la partecipazione di Adam Levine, Sleepy Brown e Scar e il micidiale Kill Jill, brano costruito su un loop vocale di un brano trance-anime giapponese in cui Killer Mike fa la sua prima apparizione insieme a Jeezy per quello che è uno dei pezzi più accattivanti del disco. Dopo oltre 20 anni di un’incredibile e originale carriera, non cede alle mode odierne e i nomi caldi del genere, come è evidente nel brano In The South che vede come ospiti Gucci Mane e la voce del compianto Pimp C, fedele alle proprie origini e a chi questo suono l’ha creato. In All Night si alterna il rap a parti cantate dove non sfigura affatto, su un beat prodotto da Dr.Luke dove protagonista è un divertente piano vintage, Get With It è un viaggio smooth funk in compagnia di Snoop Dogg mentre l’electro-funk-house di Chocolate (featuring Trozè) è un esperimento ben riuscito quanto inaspettato (pur trattandosi di un rmx del brano di Trozè e Jessie Rose uscito l’anno scorso). Made Man parla di violenza e lo fa ancora una volta insieme a Killer Mike (Get mad when a nigga wanna take that knee/But they clap when he catch that ball), Freakanomics è invece un pezzo leggero che si apre con un sax che fa da introduzione al beat vagamente dub ed è francamente un’altra bella sorpresa. Il disco si conclude con Follow Deez, brano dove New Orleans è ottimamente rappresentata dal produttore Mannie Fresh e il rapper Curren$y e che vede ancora una volta la partecipazione di Killer Mike, per una conclusione che non potrebbe suonare più tipicamente dirty south.

Voto: 7.7 – Mobutu’s Butcher

Com Truise – Iteration

Alle prese con il suo secondo album Com Truise si trova di nuovo alle prese con il non facile compito di dimostrare di meritarsi il successo non solo per il suo sempre bellissimo nome, ma anche per la sua musica. Con il primo lavoro ci era riuscito, portando un velo più oscuro sulla scena chillwave che al tempo spopolava. Oggi, Com Truise abbandona definitivamente i pixellati scenari di Drogapulco per portarci con la sua musica nelle strade notturne di un telefilm anni ’80, spingendo sull’acceleratore del suo lato più retro e synthwave.
Il fatto è che dal 2011 nella cultura pop sono successe un po’ di cose, la synthwave non è più una curiosa novità ma è diventata, fra le varie cose, la colonna sonora di film da Oscar e di serie tv di grande successo. Iteration, in effetti,  potrebbe aspirare a diventare colonna sonora del futuro Stranger Things 2, e nel caso non ci starebbe male: perché l’album è pieno di tappeti sonori capaci di creare la giusta atmosfera, ma meno capaci di assumere lo status di vere canzoni. Il che lo rende un album che difficilmente ascolterete con attenzione, ma che può sempre tornarvi utile se una notte vi ritrovaste a guidare una Chevrolet del ’73, indossando un gubbino argento con ricamato uno scorpione sulla schiena, e foste stanchi di ascoltare quell’ormai abusata canzone dei College.

Voto: 6.1 – Alessandro Lapetina