Trevor Powers, in arte Youth Lagoon, ha l’Idaho tatuato sul braccio perché, dice lui, “Non importa dove vado, ci sarà una parte di casa mia che è sempre con me”. E quando Trevor dice “casa” in realtà intende “cameretta”, quella in cui s’è rinchiuso per un anno a incidere il suo debut The Year Of Hibernation, l’anno dell’ibernazione, appunto. Eh sì, perché il poco-più-che-ventenne fu costretto a trovarsi una cura alternativa alle costose storielle dello strizzacervelli sulla sua ansia e sulla sociopatia, e quale miglior medicina se non comporre musica?
Ne scaturì un album sincero, genuino, di un lofi più necessario che ricercato, in cui gli hook da fischiettare si contrapponevano ai testi da estemporaneo e tardivo scompenso adolescenziale.
Poi Trevor lo vedi in faccia, lo vedi nei live e ti accorgi che quello che racconta è tutto vero, si porta dietro il disagio mascherandolo da timidezza, da innocenti sorrisi stupefatti per la popolarità, e tu gli credi quando dice “I have more dreams than you have posters of your favourite teams”, e ti emozioni pure.
Ma adesso che alcuni di quei sogni si sono avverati? Ora che molti palchi sono stati calcati? Ora che ho perso il conto delle volte in cui ho ascoltato The Year Of Hibernation? Adesso che il secondo album, Wondrous Bughouse, è ormai nelle nostre orecchie, cosa rimane del Trevor Powers che ci aveva stregati nel 2011?

Alla prima impressione, al primo ascolto (già dei due singoli rilasciati precedentemente alla release dell’album, Dropla e Mute) la risposta che viene subito in mente è “molto poco”.
Non c’è più traccia di quei climax e coretti onnipresenti, su nove canzoni (dieci se si considera l’intro) ben sette superano i cinque minuti di durata, la voce non è più un sussurro ed è filtrata attraverso numerosi effetti, la parte strumentale si è arricchita di una sezione ritmica corposa con batteria e percussioni e di alcuni rumorismi d’atmosfera; i suoni, sebbene le tastiere siano di base riconducibili agli esordi, non sono più diretti e puliti, ma distorti e contorti, pervasi da una tensione gracchiante che sembrerebbe spezzarsi da un momento all’altro.

Lo sperimentalismo è cosa buona e giusta, la crescita di un artista è sacrosanta, ma qui la produzione sembra aver influenzato e molto il lavoro di Travor: se i testi sono sempre sinceri e intrisi di delicatezza e fanciullesco incanto, i suoni appaiono alle volte macchinosi e preconfezionati. La potenza disarmante di The Year Of Hibernation era la semplicità con cui ti pugnalava al cuore, senza schermi e senza filtri, mentre qui il flanger, il riverbero e il compressore creano un muro che non sempre viene valicato dai sentimenti; l’onnipresenza di questi effetti sottolinea sì quello che è il disagio interiore dell’artista e delinea i confini di quello che parrebbe un viaggio mentale deformato, ma allo stesso tempo aumenta la distanza tra il fautore e il fruitore del lavoro distaccando l’ascoltatore, che difficilmente riuscirà a immedesimarsi in sovrastrutture così artificiose. A dirla tutta non siamo nemmeno di fronte ad una produzione così magnificente: la voce e gli strumenti sono effettati in maniera molto simile da un pezzo all’altro e i “rumori”, che dovrebbero essere una sorta di allucinogeno accompagnamento, sono inseriti in ogni dove finendo talvolta per prevaricare tutto il resto.

Cosa resta da fare, dunque, di fronte a questo Wondrous Bughouse?
Sicuramente scartare pezzi insipidi come Attic Doctor e The Bath (costruita sulle stesse note di Cannons), e salvarne altri con riserva: Mute, Pelican Man e Sleep Paralysis, i quali, pur iniziando bene, degenerano in strumentali forzatamente dilatate e dissonanti.
Si possono invece apprezzare il singolo Dropla e il trittico finale formato da Third Dystopia (la migliore del disco), Raspberry Cane e Daisyphobia, i brani in cui le derive psichedeliche non intendono rubare la scena alla voce e alla tastiera di Trevor, accompagnate qui da sognanti e fluttuanti melodie.
In queste ultime tracce, dove la dimensione chamber e minimal dell’esordio si è amalgamata naturalmente alla nuova frontiera del progetto Youth Lagoon, è maggiormente apprezzabile la crescita dell’artista, il quale rimane in un certo senso riconoscibile e riconducibile alle emozioni che ci aveva regalato nel 2011.
Ne risulta quindi un lavoro non immediato ma pienamente sufficiente, sicuramente inferiore al primo non tanto per fattura quanto più per la minore potenza emotiva, ma che potrà essere assimilato con il giusto numero di ascolti e con la speranza che Travor riesca a gestire meglio le sue idee future, mettendole in pratica direttamente, così come gli vengono dal cuore, così come ci aveva abituati.

Tracce consigliate: Third Dystopia