Comporre dischi è un’arte che si è persa nel tempo.

Sembrano passate ere da quando per ascoltare una canzone bisognava essere fortunati in radio o appoggiare la puntina sul solco giusto di un vinile; ma, se oggi possiamo sentirci in loop il nostro pezzo del momento, è grazie a un avanzamento tecnologico che mette al primo posto la nostra comodità di fruizione.
Lo skip delle tracce dei CD così negli anni si è evoluto nella ripetizione dei primi iPod, la creazione di scalette e mixtape resa obsoleta dal concetto di playlist, a sua volta morente per mano di algoritmi che prevedono che musica vogliamo ascoltare in autonomia. In questo panorama le singole tracce valgono molto di più di un album coeso, che diventa sempre più una raccolta tematica e sempre meno un’unità a sé stante, complice anche la brevissima soglia di attenzione che diamo a ogni artista che non sappia immediatamente conquistarci.

Evidentemente di tutto questo a William Doyle non frega un cazzo.

Mettiamo un attimo le cose in ordine però. William Doyle è un genio, non uno scappato di casa qualsiasi che decide di andare controtendenza. Un genio che ha saputo conquistarci come East India Youth, un genio che ha appena trent’anni e suona maturo come se avesse una carriera infinita alle spalle.
Direte che “genio” è un termine esagerato, ma vi invitiamo caldamente a ricordare che Doyle scriveva questo pezzo all’età che molti di noi avevamo quando abbiamo imparato a pulirci il sedere da soli. Giusto per dire. Da quando si è separato dal suo pseudonimo, Doyle ha virato verso un genere meno acido e più accogliente, sempre elegante ma meno freddo. Your Wilderness Revisited, uscito appena un anno e mezzo fa, è la prova del nove che fa scattare l’amore per l’artista e che ci fa arrivare a questo Great Spans Of Muddy Time con curiosità e trepidazione.

Le differenze tra i due lavori si notano subito: se in Wilderness Doyle ha un piglio immediato e facile quasi in ogni brano, Spans suona molto dispersivo a un ascolto frammentario, quasi come se facesse resistenza a chi in esso cerca dei singoli e non ci si immerge dall’inizio alla fine. Certo, i tre estratti And Everything Changed (But I Feel Alright), Nothing At All e soprattutto Semi-bionic (una delle tracce dell’anno, ne siamo sicuri) funzionano bene anche in autonomia, e nel gruppo possiamo inserirci anche New Uncertainties e Theme From Muddy Time, ma è indubbio che il lavoro è stato costruito con l’intento di farci ascoltare tutto, ogni suono dai primi momenti di I Need To Keep You In My Life agli ultimi sospiri di [a sea of thoughts behind it].
Ciò che stupisce, tuttavia, è la semplicità con cui tutto questo succede, se solo gli si lascia l’occasione: Spans è un disco che impone le sue regole per poter essere davvero apprezzato, ma una volta che glielo lasciate fare è forse il lavoro di Doyle più aperto, vario, vasto e coinvolgente realizzato finora.

Come valutare però un lavoro del genere? Questo, come in parte avrete capito, dipende da voi. Se, comprensibilmente e giustamente, non riuscite a fare a meno di pezzi indimenticabili da riascoltare a ruota per apprezzare un lavoro, allora Spans per voi si riduce ai pochi pezzi (di rara bellezza) di cui sopra. Se invece siete disposti ad apprezzare le regole del gioco ormai dimenticato di ascoltare un disco da capo a coda allora Doyle vi ha fatto un regalo che sa essere dolce, cupo, introspettivo, aperto ed emozionante, una serie infinita di influenze e generi e suoni che sembra impossibile condensare in appena quaranta minuti. Stiamo parlando comunque di un disco incredibile, qualsiasi sia la vostra posizione a riguardo, ma fingere che non ci sia una discrepanza tra l’ascolto come inteso e quello che siamo abituati oggi a fare sarebbe ipocrita e ingiusto.

Qualsiasi sia la vostra posizione Doyle resta una certezza nel panorama musicale, un artista degno di questo nome a cui facciamo i nostri più sentiti complimenti.

Tracce consigliate: Semi-bionic, Everything Changed (But I Feel Alright)