Il punk, vivo o morto che sia, è un genere / una filosofia senza mezzi termini, e io senza mezzi termini vi dirò questo: The Most Lamentable Tragedy è l’album punk migliore del 2015. Nella fattura e negli intenti, i Titus Andronicus possono essere considerati tra i pochi emblemi del punk reinterpretato per gli anni Dieci: senza compromessi, senza fini lucrativi (pare che il frontman Patrick Stickles lavori come maschera nei peggiori locali di Brooklyn), con l’ardore ma soprattutto le capacità di raccontare una delle storie più difficili e universali, quella di una malattia mentale, rendendola non un cliché ma decostruendola per fasi (“atti”) e somatizzandola nell’atto compositivo, che è esso stesso guarigione.

Il quarto album della band del New Jersey è un lavoro ambizioso e ossessivo nella struttura: The Lamentable Tragedy of Titus Andronicus era il titolo integrale della tragedia di Shakespeare da cui la band prende il nome, e su questa falsariga The Most Lamentable Tragedy si presenta anch’esso in atti (cinque), con un eroe (Our Hero), un doppelgänger (Lookalike), una musa ispiratrice (Siobhán) e una trama che si evolve, seppur ciclicamente, attraverso 93 minuti, 29 brani, quattro stagioni e, di conseguenza, con diverse influenze musicali a dominare ognuno dei cinque atti. Già denominato “rock opera”, TMLT è un caos razionalizzato di generi – tra i quali a dominare sono punk rock, rock ‘n’ roll e post-hardcore – scandito da droni che vanno ad aprire le sequenze di ogni atto; il lavoro ossessivo è soprattutto dedicato ai testi: difficili, crudi, bellissimi, ma anche straripanti di citazioni (interne al disco, interne alla discografia, esterne), riferimenti culturali e letterari (l’Amleto di Shakespeare su tutti, ma anche qualche omaggio allo stile di scrittura e composizione di Daniel Johnston, di cui compare anche una cover) e perfino metricamente studiato.* Per la sua portata culturale e artistica e per gli innumerevoli riferimenti culturali, l’opera è anche stata paragonata a To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar, che è anch’essa un testamento personale dell’autore, sebbene le due tocchino temi differenti in modi differenti.

Ma entriamo nei meandri della mente di Stickles. L’atto I si apre con The Angry Hour, un accordo di dodici note, dissonante, arrangiato nientemeno che dal signor Owen Pallett, ormai noto per trasformare in oro tutto ciò che tocchi, che ricomparirà spesso nel disco. Il vero brano di apertura è No Future Part IV: No Future Triumphant, un pezzo puramente punk rock che riprende gli altri No Future sparsi nella discografia dei Titus Andronicus, che introduce la condizione del nostro eroe come “ex human”, ma lo fa donando ad ogni strofa una musicalità particolare con un gioco di assonanze in cui ogni strofa è dominata da una vocale o un dittongo: /ay/, /u/, /oo/ eccetera. L’allitterazione invece è al centro di Stranded (On My Own), che ruota attorno all’unità fonetica /is/ con una componente rock ‘n’ roll, in cui il nostro eroe è visto dai dottori come “science experiment”, “left alone to dread the dawn”. Lonely Boy alleggerisce l’atmosfera con un ritmo un po’ country e un po’ memore degli AC/DC, in cui entrano tastiere e fiati con un’imprevedibilità che continueremo a vedere in varie parti del disco. Apice dell’atto I è I Lost My Mind (+@), tra i brani più autobiografici: Stickles, a cui erano stati prescritti medicinali già dai 4 anni, descrive le sue innumerevoli ricadute (“I lost my mind, seven eight or nine times”) tanto da diventare quell’esperimento scientifico di cui sopra (“I was displayed in a cage, they claimed, in the name of science”) e tanto da diventare insensibile a tutto, perfino alle ricadute stesse (“I don’t mind when I lose my mind” è il gioco di parole che sorregge tutto il brano).

L’atto II è lo sdoppiamento del nostro eroe, in cui il genere dominante diventa il punk ed è Lookalike a parlare per lui. I Lost My Mind (DJ) è una cover punk del brano di Daniel Johnston, con interessanti parallelismi con l’eponima dell’atto I (“Pardon me but I seem to have lost my mind”), mentre Mr E. Mann (“mystery man”), che si fa accompagnare dagli archi di Owen Pallett, introduce il doppelganger come la fase maniacale del disturbo bipolare, che segue ciclicamente quella depressiva. Fired Up e Dimed Out sono altri due pezzi dalla matrice punk rock perfetti come singoli, mentre è More Perfect Union a spiccare fra tutte, con la sua componente d’imprevedibilità che rende una ballata medievale accettabile in un disco dei Titus Andronicus: l’atto II si chiude con un’allucinazione e un viaggio nel tempo e con quasi dieci minuti di follia compositiva.

L’atto III è l’arrivo dell’estate, della musa e del post-hardcore: (S)he Said / (S)he Said gioca sull’ambiguità dei ruoli e racconta del nostro eroe che, ritornato in sé, finisce per confidare il suo dramma ad una ragazza appena conosciuta (“I’ve always had something inside me”), o forse è lei a raccontargli il suo? “I’ve always had something inside of me” è quello che poi Stickles riprende in Funny Feeling con un crescendo strumentale e un basso imponente degno dei migliori anni ’90, mentre a chiudere l’atto è una Fatal Flaw che invece è quasi pop-punk.

L’atto IV è quello più confusionario dell’opera: Come On Siobhán si appoggia sugli archi di Pallett mentre Stickles canta di un amore e di una vita passata, ricordandoci che qualche miglioramento c’è stato (“Together we greet the dawn” in opposizione a “left alone to dread the dawn” dell’atto I). Ma tutto rimane una sequenza onirica, che include la cover dei Pogues A Pair of Brown Eyes, quella gospel di Auld Lang Syne e quella di un loro brano tratto da Local Business, I’m Going Insane.

Nell’atto V il nostro eroe esce dal sogno e ricade (The Fall) nella stagione autunnale, distaccandosi dal doppelganger in No Future Part V: In Endless Dreaming, una ballata al piano che guarda al passato per dare un epilogo alla tragedia. Amleto contempla il suicidio, ma in Stable Boy – suonata con un organetto e registrata su cassetta come tributo a Johnston – il nostro eroe ci rassicura: “I said never, no, never, no, never no sleeping forever”.

The Most Lamentable Tragedy, beh, l’avrete capito, è un’opera estremamente complessa, ambiziosa e maestosa. Se il dubbio all’uscita dell’album era che potesse risultare un’accozzaglia fin troppo ambiziosa e poco degna della sua lunghezza, allora abbiamo sottovalutato il genio** di Patrick Stickley, che era già vivo nei primi tre dischi ma risulta, in TMLT, evoluto e (r)affinato, al pieno delle potenzialità, tanto da rendere comprensibili le voci sullo scioglimento della band dopo la pubblicazione del loro Opus Magnum. E se proprio vogliamo parlare delle pecche dell’album, se proprio vogliamo cercarle, si può dire che per certi versi sarebbe stato gradevole un po’ di editing, un colpetto sulla spalla per dire a Stickles di rallentare un po’ gli ingranaggi, forse nell’atto IV. Eppure qualsiasi critica si fa minima al cospetto di quel che abbiamo davanti: The Most Lamentable Tragedy, capolavoro stilistico, è forma e sostanza sintetizzate in punk, un connubio quasi ossimorico, ma che funziona eccome.

*[nota del recensore: Patrick Stickles ne ha annotato tutti i testi su Genius, e per me che sono linguista è stato un viaggione infinito]
**[altra nota del recensore: non do del “genio” a chiunque]

Tracce consigliate: More Perfect Union, I Lost My Mind (+@), Funny Feeling