Il Mali, ex colonia francese indipendente dal 1960, si estende per più di un milione e duecentomila km quadrati nell’ovest dell’Africa. La vasta regione che compone il settentrione desertico del paese si è dichiarata indipendente dal resto della nazione nel 2012: il nuovo soggetto, denominato Azawad e ovviamente non riconosciuto dall’ONU è controllato dalle milizie tuareg e da gruppi armati dell’Ansar Dine dalla forte impronta fondamentalista islamica che ha imposto la sharia nelle regioni occupate e, tra le altre cose, ha bandito ogni forma di intrattenimento occidentale ma anche malese che non rispondesse ai canoni della legge religiosa.
E qui la storia politica del Mali, che ha occupato per qualche tempo le pagine degli esteri dei quotidiani due anni fa, incrocia quella dei Tinariwen (in lingua tamashek Deserti): da anni tra i gruppi più rappresentativi della World music contemporanea, hanno assistito all’incarcerazione del chitarrista Abdallah Ag Lamida. La musica dei Tinariwen, considerata contraria agli insegnamenti del Corano, pesca a piene mani dalla tradizione sonora del delta del Niger, da quella berbera e dalla musica popolare nordafricana, il tutto suonando (anche) con strumenti tipicamente occidentali quali le chitarre elettriche ed acustiche Gibson sfoggiate nelle foto promozionali. Altrettanto importanti sono state le influenze dal blues e dal rock anni 60-70 (basti fare un accenno all’amore mai nascosto di Robert Plant per la musica africana e nordafricana, Master Musicians of Jajouka e Ali Farka Touré in testa) Perfetta sintesi di questa breve spiegazione può essere questa immagine.

Emmaar arriva a tre anni da Tassili, acclamato da critica e pubblico e primo loro album a scalare timidamente le classifiche occidentali.
È la voce dell’ospite Saul Williams ad aprire l’album con pochi versi dedicati al deserto nell’opener Toumast Tincha guidata dalle chitarre e sostenuta da cori tribali e percussioni. Si sentono fin da subito e non si arrestano mai le chiare influenze ricevute dal rock classico ma non cadono mai nella riproposizione sterile di cose sentite decenni fa: piuttosto i quattro chitarristi del gruppo piegano le sonorità del blues rock fino a fargli comporre melodie desertiche come su Imdiwanin ahi Tifhamam che vede invece la partecipazione del chitarrista dei RHCP Josh Klinghofer e del musicista folk americano Fats Kaplin, suonatore di fiddle. Da canzoni appassionate nella loro rapidità a slow-tempos come Sendad Eghlalan, quanto di più simile ad un lento pregare febbrile e caratterizzato da chitarre il cui apporto rischia quasi di passare in secondo piano, buie ma non cupe, quanto può esserlo una notte in tenda nel deserto riscaldati solo da un falò e dal tagelmust berbero.
Quasi in conclusione quella che forse è la traccia migliore dell’album, Emajer trascinata dalle svelte percussioni e da un lavoro chitarristico scintillante. Chiude l’album Aghregh Medin dove le voci corali che popolano tutto Emmaar spariscono per lasciare il posto alla voce solista e le chitarre elettriche cedono il passo ad una sola acustica capaci di giravolte semplici solo in apparenza e ipnotiche.

Tassili era stato registrato nel deserto: Emmaar, nato in uno studio nel deserto californiano del parco dello Joshua Tree già celebrato dagli U2, riflette sempre l’attaccamento alle proprie radici ma in un’amaramente nuova condizione di esiliati dalla propria terra. Emmaar, spiega Abdallah Alhousseyni “significa l’arsura della brezza. È una metafora della situazione nella nostra terra; la tensione prima della guerra, della rivoluzione”. Emmaar è una grande bellezza torrida.

Recommended tracks: EmajerToumast Tincha