Si sono presi un annetto abbondante per dedicarsi ai rispettivi progetti solisti, dopodiché, fra un dj set di Ufo e un’ennesima cover non dichiarata di Appino, gli Zen Circus sono pronti ed escono con il oro ottavo lavoro in studio Canzoni contro la natura. Sono ormai passati anni dal loro boom, e ancor di più ne sono passati dagli esordi, quelli di quando cantavano ancora in inglese ed erano praticamente una cover band dei Pixies: ora abbiamo di fronte una formazione matura, consapevole e cresciuta, che, abbandonate le sonorità e gli eccessi di zelo giovanili, fa sentire sempre più forte la propria vena folk-punk. La scelta è sicuramente discutibile, anche se siamo sicuri che accattiverà efficacemente frange di pubblico sempre più ampie (adesso li ascolta anche mia madre, per esempio). Convinto che il cantautorato costituisca tanto un bagaglio culturale imprescindibile per ogni musicista italiano, quanto, nella maggior parte dei casi, una specie di condanna a morte che costringe ogni produzione “nostrana” a virare verso sonorità un po’ di merda, aspettiamo a storcere il naso davanti all’etichetta “folk-punk” – che suona a onor del vero poco credibile, e può effettivamente portare ad accostamenti inconsueti, alcuni storicamente attestati e per quanto vecchi comunque validi, tipo Pogues, altri semplicemente anacronistici e mal riusciti come un bel risotto alla merda – e ascoltiamo il disco.

La prima canzone dell’album è il singolo Viva che abbiamo già sentito, di fatto non troppo lontano dagli episodi più di successo della formazione: l’ironia al vetriolo del testo è la stessa, solo l’arrangiamento lascia spazio ad incursioni che tingono il cantautorato di una sottile patina punk. Dal pezzo successivo Postumia sia l’arrangiamento, che diventa sempre più folkeggiante (ma alla Modena City Ramblers, non alla Mumford and Sons), che i testi, presso i quali la critica comincia a diventare troppo ma troppo simile a quella che si legge sugli striscioni alle manifestazioni che si fanno al liceo, anche se lì su ideali e senso civico prevalgono decisamente droga e amica figa che va alle riunioni di collettivo (noi-la-cri-si-non-la-pa-ghia-mooo). Dalla canzone successiva Canzone Contro La Natura in poi emerge un problema spinosissimo: le rime forzate.

Qualche esempio:

“[..] se gli animali cominciassero ad organizzarci
e lentamente progettassero di sterminarci”

“[..] io non ho mai avuto un figlio
come potrei, io che sono un tiglio”

“[..] questa è la canzone contro
contro la natura
quella che davvero fa paura”

Ora, le rime possono risultare simpatiche, quando riescono aiutano la fruizione del testo e gli conferiscono un valore aggiuntivo. Quando però non vengono, abbiamo la splendida opportunità di far “suonare” delle frasi, formulandole in metrica e ignorando la rima.
E funziona bene comunque, tipo:

“Ci son due coccodrilli
ed un orango tango,
due piccoli serpenti
e un’aquila reale,
il gatto, il topo, l’elefante:
non manca più nessuno;
solo non si vedono i due leocorni”

Questo un po’ per dare la mia risposta a chi dice che Appino è uno dei pochi artisti italiani capaci di macinare testi fighi. La musica alterna episodi riusciti (tipo il finale di Albero di tiglio, durante il quale mi sono anche un po’ esaltato) ad altri che decisamente non lo sono, come L’anarchico e il generale, che è proprio identica a questo gioiello dimenticato della musica italiana. Dai.
Nel complesso l’album dà l’idea di essere assemblato con fretta a approssimazione, più con lo spirito con il quale si fa una corsa ad ostacoli che con quello con il quale si scrive un disco. Una corsa ad ostacoli con in palio non una medaglia né una coppa, ma i soldi di chi ascolta e acquista. Quindi male male male, a maggior ragione perché stiamo parlando di una formazione alla quale non mancano sicuramente né le capacità né l’esperienza.

Recommended track: Albero di tiglio

3.0/10