Quello della scena rave inglese di inizio anni ’90 è un argomento troppo grande da affrontare nello spazio di un’umile recensione. Volendolo riassumere in una frase (sicuramente discutibile) si può dire che da lì sia partito quasi tutto il mondo multisfaccettato su cui oggi poniamo il cappello di “musica dance”.
Pensiamo alla distanza che separa due numi tutelari del periodo, ad esempio Paul Oakenfold e i Prodigy, come carriera, stile di vita, musica. Da una parte l’edonismo ibizienco sfrenato e lussuoso, dall’altro il ribellismo portato avanti con atteggiamento oltranzista: due anime che fin dal primo momento sono coesistite, ognuna esprimendo generi, luoghi e nomi del tutto differenti.

Oggi, complice la generale agonia di quasi ogni forma di controcultura, il primo mondo sta sicuramente meglio del secondo: è infatti l’EDM con il suo carico di soldi, leggerezza, ostentazione e spesso incompetenza a farla da padrone. Ed è proprio da una voglia di rivalsa nei confronti di quella scena che nasce quest’album, una rivolta contro quello che Liam Howlett chiama “All that DJ bollocks and tutorials on YouTube shit”, e contro i dj e le canzoni costruite in provetta con l’unico scopo di riempire di imberbi eventi sponsorizzati sempre più grandi e insignificanti.
Il risultato è violento. Forse il materiale più violento mai uscito dalle mani di Liam, Keith e Maxim. Se dell’album precedente, Invaders Must Die, avete apprezzati i pezzi più pestoni, sicuramente non potrete fare a meno di godervi questo nuovo lavoro.
Già dall’apertura, dove ad accoglierci è una marcia marziale inquietante quanto programmatica. Da qui in poi, mentre l’asticella dell’aggressività si mantiene sempre verso l’alto, quella della qualità mira mediamente al buono ma è meno costante: se da un lato abbiamo Nasty (uno dei primi singoli) che sembra una versione meno ispirata di Omen, da un altro abbiamo Ibiza, un pezzo jungle-grime irresistibile che ironizza per l’appunto sul mondo dei dj patinati. E ancora, se da un lato la collaborazione con Flux Pavilion non aggiunge niente alla discografia dei Prodigy, da un altro i 3 minuti della cavalcata in crescendo Beyond the Deathray rappresentano un caso piuttosto inedito, anche per chi li segue dagli inizi. Ma indubbiamente, sono 3 minuti ben riusciti. Così come sono tanti altri i momenti degni di nota: la frenesia di Get Your Fight On, il ritornello orientaleggiante di Medicine, la potenza apocalittica di Wall of Death.

I 14 pezzi in scaletta formano un album lungo ma compatto, ideale per la dimensione live (quella preferita dai Prodigy), e ci pongono di fronte al tentativo dei 3 dell’Essex di riaffermarsi non più come pionieri della dance (sarebbe ridicolo e anacronistico) ma come padri spirituali di un modo diverso di intenderla e viverla. Tentativo che, seppur con qualche sbavatura, si può dire riuscito.

Tracce raccomandate: Ibiza, Beyond The Deathray.