Se potessi avere un euro per ogni volta che in questo 2014 ho dovuto citare un’ispirazione dagli anni 80 sarei talmente ricco che potrei comprarmi la celebrità. Taylor Swift mi noterebbe, ci fidanzeremmo e staremmo insieme per due settimane alla fine delle quali mi troverei dedicata una canzone tristissima. O almeno questa era la Taylor Swift di qualche anno fa, adesso sublima la mancanza di una relazione con amici & mici.
Non vivendo nel mondo dei se e dei ma, non mi viene in tasca neanche un centesimo nel citare la nostra ex ragazza prodigio del pop country che per 1989 (suo anno di nascita) dichiara di aver trovato uno sprone proprio nei suoni della fine di quel decennio.
Chi si è occupato prima di me di recensirla, nello specifico con Red non mancava di far osservare una furbesca quanto esplicita inclinazione all’hipsteria, anche un po’ di basso bordo, a buon mercato. Tutto confermato dalla polaroid mezza sfocata con inquadratura di un’atroce felpa con gabbiani usata come copertina. Taylor, Taylor. Arrivi tardi e arrivi male ma per fortuna c’è la musica.

Il primo singolo, Shake It Off (spero voi abbiate riso delle polemiche allucinanti e idiote sollevate da Earl Sweatshirt, polemiche alle quali non voglio dedicare alcuno spazio se non per deriderle) è un pezzo di pop radiofonico assolutamente perfetto. Un sassofono scaltro che fa atmosfera senza essere mai invasivo, beat da accompagnare battendo mani e piedi, testo “diretto” ma ironico, idem il video che rapidamente ha dato vita a un numero enorme di parodie. Il successo è arrivato a valanga anche se non sono del tutto fuori luogo le critiche che parlano di uno sfiorire della personalità dell’inteprete in favore di quelle degli onnipresenti hit-maker.
A proposito vale notare l’ottimo lavoro svolto da Max Martin su Shake It Off e sul secondo singolo, Out of the Woods, un altro singolo virtualmente ineccepibile ma ancora più slegato dallo stile antecedente. Quasi si potrebbe scambiare per una canzone di Robyn o Lykke Li  e se al posto di Taylor Swift ci fosse scritto un altro nome molti furbini non farebbero gli schizzinosi nell’apprezzarla.
Molto, molto meno bene invece Welcome to New York, scelta evidentemente sbagliata sia come terzo singolo sia come brano posto in apertura dell’album. Ovviamente dietro c’è il clichè della città come ispirazione, svolta della vita e chi più ne ha più ne metta: glisso per misericordia sul testo di una banalità imbarazzante perfino per i canoni del genere ma devo invece mettere in rilievo come i tre minuti e mezzo qui siano veramente noiosi, per nulla coinvolgenti. Welcome to New York è talmente semplice e ripetitiva da sconfinare nello stupido e se pensate che sia bruttina già ascoltandone solo il primo minuto aspettate di sentire il ritornello.

Analizzati i singoli che trascineranno verso la scalata al successo non resta che guardare il resto delle tracce. C’è del buono e c’è del marcio. Il marcio va letto come le classiche canzoncine senza mordente inserite tanto per fare numero. I Wish You Would, adrenalinica ma senza una destinazione, ha impresso lo stampino compositivo del recente passato discografico della bionda ma in una veste elettronicizzata. Nah. Stessa cosa succede con How You Get the Girl, veramente troppo infantile e ingenua.
Bisogna riconoscere per onestà che a parte la conclusiva Clean, talmente pallosa che viene da pensare che in sala di registrazione siano stati drogati tutti a loro insaputa vista la mollezza della base, della produzione e del cantato, non ci sono vere e proprie canzonacce fatte male e senza gusto ma al massimo noiose, anonime.
Il buono sono altri ottimi momenti di pop sempre vagamente retrò ma nei fatti dall’appeal modernissimo: Blank Space e Style risollevano un po’ la caduta di stile di Welcome to New York ma soprattutto per la prima delle due è difficile parlare di alti livelli qualitativi. È roba sentita, risentita, strasentita. Style invece si differenzia in meglio, parte quasi come fosse un pezzo di Kavinsky e con quella chitarra funky ammicca anche ai Daft Punk dell’ultimo album. Degne di nota anche le ritmiche sfuggenti di I Know Places squarciate solo dal refrain.
Bad Blood si candida senza dubbio a uno dei migliori brani dell’album ma potrebbe calarvi leggermente quando leggendo il testo scoprirete che non parla di un amore finito (strano ma vero eh, l’atmosfera crepuscolare lo avrebbe suggerito) ma di una micidiale faida con una cantante che non nomino. È Katy Perry, ciao.

La sfida di rendere Taylor Swift (ancora) più appetibile per il grande pubblico e tirarla forse per sempre fuori dalla scena country è sicuramente riuscita dal punto di vista commerciale. Da quello artistico rimane qualche dubbio di troppo dovuto a ripetitività e ad una sensazione di già sentito impossibile da scacciare.
Insopportabile rompicoglioni strappalacrime o piacevole “outsider” (tra virgolette non a caso) con gli stivali da cowgirl in mezzo a selve di tacchi 12, è innegabile che il personaggio e sottolineo, personaggio Taylor Swift avesse un’identità meno stereotipata delle colleghe. 1989 la porta quasi nel mondo dei grandi (quasi perché c’è ancora una sensazione di al ma pagando un pegno innegabile.
È bene o male? Ai posteri l’ardua sentenza, intanto Max Martin si frega le mani in studio. Ma se proprio la strada intrapresa fosse questa, possiamo avere un album tutto come Out of the Woods e Bad Blood? Grazie.

Traccia consigliata: Out of the Woods.