Taman Shud: finito, concluso. Cosa pensare di una band che parte con un nome affascinante tratto dal Rubayyat, celebre raccolta del poeta Omar Khayyam e in tempi più recenti salito alla ribalta per un misterioso, insoluto caso di omicidio?
Possiamo pensare che siano dei gran paraculi, furbi nel giocare con l’immaginario. O forse possiamo dargli il beneficio dell’onestà su tali gusti esotici come autentici e allora vale la pena dare un ascolto a questi quattro londinesi.

Dopo una strumentale che fa da introduzione (e da canzone con il titolo più truce in assoluto, The Hissing Priest’s Remains) arriva The Ziggurat, a Mirage. Il tempo rallenta, i passi del sacerdote sulla lunga scalinata che porta fino in cima alla piramide si fanno grevi ma implacabili e si respira l’aria pesante di chi mi sembra non possa essere ignorante in materia di doom, dalla primogenitura psichedelica dei Black Sabbath fino allle più recenti processioni di Candlemass, Khanate, Yob
Lunga vita al caos urla The Hex Inverted, primo singolo. Cinque minuti che incrociano le atmosfere dark wave con la foga del punk, registrati come se il suono provenisse da una grande distanza e a noi arrivasse solo il suo eco, rimbombante e mefitico. Le influenze ci sono, non si può dire che il gruppo sia autore di una nuova vena carica di originalità ma hanno il buon gusto di non esagerare col citazionismo. L’amalgama, se non esattamente originale e innovativo, è almeno saldo e coerente.
Il disco si caratterizza per un continuo e frenetico, forse troppo, mutare di tempi e atmosfera; ora vengono lanciati i propri cavalli al galoppo (I tego arcana Dei), più spesso si ritorna sulle vie di una ritualità musicale lenta ed esasperata, ora ancora le strade si incrociano come sulla titletrack che parte ad un passo e termina ad un altro. E ancora, sulla corsa selvaggia di Crime Cycle, con la sua sezione ritmica trascinante e cupissima, si arriva ad apprezzare il profondo bagaglio di lezioni imparate dalla e sulla dark wave.
Per quanto concerne le tematiche trattate e l’iconografia usata, per favore non pensate subito alla più noiosa e ripetitiva delle banalizzazioni; qui non c’entra il satanismo, non ci sono chiese da bruciare. I Taman Shud si dichiarano araldi di una resistenza politica e spirituale: “It’s the space outside of capitalism where all sorts of magical, imaginative possibilities become live again […] anyone who comes to our shows is just subjected to such a level of loudness and occult ideas and just ridiculousness that it forces capitalism out of this magic space.” Qualcuno gli faccia ascoltare gli Ain Soph perché, se è tutto vero, credo abbiano qualcosa in comune.

Viper Smoke è un lavoro ancora largamente immaturo e ingenuo, carico di tutta la protervia possibile. Eppure forse proprio per questo riesce ad imporsi, si fa largo con una scarica di adrenalina dark e un rallentamento da incubo, con una chitarra che ora scolpisce nel marmo e ora distrugge con pennate che sono colpi di martello. Forse non sono destinati ad andare lontano o forse questo è il primo tassello, grezzo e non pienamente compiuto di un percorso che li porterà a ritagliarsi un posto di favore nella musica estrema ma non troppo che viene ormai guardata con apprezzamento anche da larga parte della stampa.
Per dirla parafrasando qualcun’altro… Viper Smoke non è adatto alla percezione di orecchie che ascoltano; poiché strane e terrificanti sono le sue meraviglie. Le sue urla, i suoi riff malati e ossessivi ma al tempo stesso liberatori provengono da una terra ove cose che dovrebbero strisciare hanno invece appreso a camminare. Felice ascolto.

Traccia consigliata: The Hex Inverted.