Una delle cose belle di The Ascension è che è nato da un trasloco. Sufjan Stevens decide di muoversi definitivamente da Brooklyn dopo vent’anni di vita in città, per restare nello stato di New York, ma a Nord, verso gli Appalachi, tra le montagne Catskill. Un ritiro si potrebbe dire spirituale, ma c’è un problema: tutta la musica finora pubblicata da Sufjan Stevens è stata pressoché spirituale; è qui che allora scatta qualcosa che funziona alla rovescia.
Sufjan Stevens, neo uomo delle montagne, che fa in seguito al trasloco, immerso nella natura? Ripone la chitarra e il banjo, che sono stati da sempre il cardo e il decumano per far viaggiare la sua poetica; ripone i suoi strumenti prediletti – proprio ora che si sposerebbero alla perfezione con le montagne – per rimpiazzarli invece con altri “che possono funzionare solo con un computer”, e che magari si sposerebbero meglio con lo skyline cittadino. Da qui, da questa scelta paesaggisticamente anti-convenzionale, nasce The Ascension, l’ottavo disco del cantautore di Detroit, totalmente elettronico, agli antipodi rispetto a Carrie & Lowell e ai pezzi per Call Me By Your Name, più vicino a Age Of Adz (2010), in ogni caso, come sempre, un album in grado di dirci qualcosa di importante.
The Ascension smette di parlare la lingua del folk non solo perché spariscono le corde, ma perché cambia anche la mentalità di Stevens: “Per la prima volta, sono sincero su ciò che provo per il mondo”. Abbandonati gli arrangiamenti acustici, Stevens sviluppa un’attitudine più terrena: le parole e le immagini di The Ascension non sono introspettive, ma tra i synth e la costante drum machine sentiamo il punto di vista di un uomo di quarantacinque anni deluso dal mondo che lo circonda, tra disastri ambientali e un tracollo socio-politico che lo hanno reso cinico e disilluso:
Here I am Alone in My Car / Hopelesness incorporated.
All’apertura di The Ascension, in Make Me An Offer I Cannot Refuse, lo sentiamo infatti cantare “I have lost my patience”; un verso rabbioso, di una rabbia diretta, inedita per Stevens, che segna una delle linee guida dell’intero album. È uno sfogo, ad esempio, la fuga idilliaca immaginata in Run Away With Me, o le immagini di Death Star (“Vandalize what you create”); è un grido di resistenza Video Game, in cui ogni verso inizia con “I don’t wanna”, così come sono confessioni crude e dirette quei crolli di fiducia nei confronti dell’America, e dalla cultura occidentale, cantati in Tell Me You Love Me e America. I toni – e i temi – procedono rasentando la cassa dritta soprattutto negli outro (a fa veramente strano dirlo parlando di Sufjan Stevens), ma anche rallentando verso il downtempo, facendosi rarefatti in pezzi come la “farmaceutica” Ativan, nel mantra sommerso di Die Happy, nell’eponima The Ascension.
Non c’è dubbio che abbiamo davanti a noi un nuovo Sufjan Stevens: c’è stato un trasloco fisico, ma anche metaforico. I nuovi spazi sono arredati alla maniera di Kid A dei Radiohead; sarà poi per il paesaggio montano e l’affinità col Wyoming, ma c’è anche tanto Justin Vernon (Bon Iver), quello più recente di 22, A Million e i,i. Per restare in casa propria, oltre al già citato Age Of Adz, Stevens ha ripreso in mano anche le atmosfere di Planetarium, infatti nei crediti di The Ascension ricorrono i nomi di James McAlister e Bryce Dessner, coautori dell’album “cosmico” del 2017, e ha ripreso anche quelle ambient di Aporia, l’album con Lowell Brams uscito lo scorso marzo.
L’avevamo capito che stava succedendo qualcosa, un cambiamento importante, quando uscì America, il primo singolo estratto da The Ascension: come b-side della pubblicazione c’era My Rajneesh, un brano riesumato dalle sessioni di Carrie & Lowell e allungato con le nuove influenze. Nei due lati di quello stesso vinile c’erano dunque il solito Sufjan e quello nuovo. Tanti possono pensare che questo ottavo album sia uno spreco di energie, investite per qualcosa che non compete al cantautore di Detroit. La perizia nel fare musica al computer è in effetti inferiore rispetto a quella acustica, e ce ne accorgiamo dalla semplicità con cui questo nuovo album scorre. Possiamo essere tutti d’accordo che il Sufjan Stevens chitarra e banjo sia quello migliore, ma la sincerità e la partecipazione dell’artista che caratterizzano The Ascension sono comunque un qualcosa di prezioso.
Anche con l’elettronica ad accompagnarlo, e una rabbia inedita, è sempre una bellezza ascoltare Sufjan Stevens.
Tracce consigliate: Run Away With Me, Ativan, Goodbay To All That