Già dai primi singoli usciti negli scorsi mesi (Crying, The Last Exit, White Sands), ci è venuto il presentimento che per i Still Corners le cose iniziassero a prendere una piega diversa dal solito. Aspettandoci infatti un cambio di direzione verso nuovi suoni ideali, abbiamo avuto l’impressione (palpabile dal titolo del disco) che con The Last Exit avremmo dovuto prepararci ad un road trip fatto di chitarre in stile americana e stivaletti. Abbiamo quindi aspettato impazienti di salire sulla Cadillac di Lost Highways (perché chi meglio di Lynch rappresenterebbe i veri Still Corners?) ma a venirci a prendere è arrivata una Mazda Revue.
Senza voler esagerare, tutto ciò è per intendere che ci si aspettava forse di più dall’incombente novità. Peccato solo che, come ormai sta succedendo da qualche anno a questa parte, ci ritroviamo ad ascoltare i nuovi lavori di tutta quella generazione dream-pop (e derivati annessi) degli anni ’10 che non sa più cosa inventarsi. Cosa dobbiamo trarre da ciò? Che adesso siamo in grado di filtrare da quel brodo chi ancora riesce a re-inventarsi e chi invece pecca al di fuori della propria comfort-zone?
È difficile per un fan del tempo dire che una band come gli Still Corners ha fatto un album inconcludente, ma The Last Exit per certi versi lo è
Partendo dal nuovo stile del disco – pur avendo delle buone intenzioni – questo rimane parecchio trascurato, non riuscendo ad essere completamente interessante e quindi perdendo ogni tipo di elevazione. Probabilmente ci si aspetta un maggiore coinvolgimento quando viene presentato un elemento innovativo da una band che non si è mai spinta troppo a sperimentalismi. Non toglie il fatto però che l’idea generale attorno a cui ruota The Last Exit non viene messa abbastanza in mostra, creando uno story-telling senza un senso specifico.
Cosa propone esattamente questo accenno al genere americana (o country che sia)? Da un lato una particolarità aggiunta che in realtà ci si poteva aspettare (vedi Widowspeak), dall’altro la scelta di una toppa che nulla aggiunge allo stile di una giacca che inizia a scucire. Se la band pensava di poter scaturire qualche emozione accomunando il dream-pop e la psichedelia ai deserti americani, sbagliava.
Dallo stereo suonano quindi undici lunghe tracce, difficili da seguire senza una grossa efficacia che le stemperi. Ci sono alcuni momenti più alti di altri , come nella già citata White Sands o nella sporca Bad Town, che si dirigono verso strutture interessanti e perfezionismi di suono. Il complesso però non affascina, rimanendo sterile, proponendo soundtracks che non funzionano non avendo un film da accompagnare, lasciando troppo all’immaginazione. Con inutilità così, risulta difficile apprezzare quegli elementi buoni, portando a pensare che pur avendo idee buone, questo tessuto non convince. Rimangono le fasi eteree come in Till We Meet Again, che ulteriormente riescono ad evocare le ambientazioni di cui si parla, le strade vuote, posti desolati nel pieno centro degli Stati Uniti, riti e peyote ma la storia a momenti non regge nella sua sdolcinatezza e popolarità.
Senza troppa cattiveria, in futuro i Still Corners riusciranno magari ad evolversi da questa fase a qualcosa di più sensato. Per ora The Last Exit lo si può tradurre come un momento che è meglio lasciare da parte e che forse necessitava una meditazione più importante. Perché se anche lo stesso stile simil-dream pop o psych da cameretta rimane uno degli amori più grandi delle vite di molti di noi, sentirlo così snaturato e senza un punto di arrivo spezza un po’ la lancia di Cupido.
Tracce consigliate: White Sands