Leggere tra le righe di Shabrang è come muoversi nella casa degli specchi: ogni direzione sembra quella giusta, ma inevitabilmente si finisce col naso contro il muro. Sarà il buio pesto in cui è completamente immerso, sarà il freddo glaciale della sezione vocale, ma la sensazione di smarrimento che offre questo album è totale. E direzione dopo direzione, muro contro muro, il viso si colora di lividi e di tanto altro.

Di sofferenze e contusioni, ad esempio, a partire dalla copertina, che esprime le difficoltà che Sevdaliza ha dovuto superare nel rapporto con il suo lavoro e con se stessa. Simbolicamente un processo, una progressione da un punto A ad un punto B; da Sevda Alizadeh a Sevdaliza, appunto.

Questo percorso però è stato lento, interrotto da tappe dolorose e processi di elaborazione. Le sue canzoni sono sommesse ed eleganti, ma le sonorità che le compongono si stratificano una sull’altra e creano un velo (anzi diciamo una coperta di lana da 50 strati) decisamente opaco. Ci sono tutte le fasi del dolore raccontate con un approccio naturale e dai tratti ancora più intimi, o se vogliamo sinceri, rispetto al suo esordio con ISON.

L’obiettivo di una popular music sofisticata ma al tempo stesso accessibile viene ricercato – ma non sempre raggiunto – mettendo uno sopra l’altro in un difficile equilibrio gli elementi più disparati: tutto ciò che negli ultimi anni è stato etichettato come avant-pop (FKA twigs su tutte) ed il trip hop canonico (vedi Wallflower o Rhode). Il pianoforte classico, agli archi e i violini con synth futuristici rivisitati in chiave arcaica, (vedi Lamp Lady o No Way) o, ancora, lo slow jazz di Pyramid Song dei Radiohead in All Rivers at Once e la musica della sua terra di Gole Bi Goldoon. E sebbene l’album sia chiaramente proiettato al futuro si percepisce di continuo la matrice tradizionale che lo ha influenzato, come a dimostrare che il mondo è ancora governato da regole antiche, che poi è un messaggio che troviamo in parte anche in Arca.

Questa incertezza non si percepisce nella sua voce che, invece, riempie tutto lo spazio disponibile con la freddezza e con la sicurezza di chi è guarito o, forse, cambiato. L’artista, infatti, ha il totale controllo delle emozioni presenti e di quelle rievocate nei ricordi e riesce a non farsi mai sopraffare dall’oscurità. Anzi, in un certo senso contribuisce a generarne di nuova.

Shabrang è anche un album di viaggi e, inevitabilmente, di solitudine.

C’è il viaggio (e la solitudine) dell’eroe dei poemi epici persiani Siyâvash e c’è il synth della title track che si arrota su se stesso come le fiamme che ha dovuto attraversare in sella al suo cavallo Shabrang. Ma anche qui le direzioni e le chiavi di lettura sono molteplici. Con il mito, a metà tra leggenda e zoroastrismo, lascia sul terreno messaggi universali sull’innocenza e sull’autoconsapevolezza e sulla guarigione, che in fondo altro non sono che i riflessi di se stessa allo specchio. E c’è la solitudine nella sofferenza e nei momenti di passaggio: quella diretta di RhodeOh, solitude, my home” o quella mediata di HadibiNo one understands me”; “Is there anyone out there/To get me out of my head?” . 

Siamo evidentemente agli antipodi rispetto ad un certo tipo di storie che non permettono di comprendere fino in fondo il sviluppo dei personaggi specialmente nel modo in cui superano le difficoltà, come se il lieto fine fosse già scritto prima ancora di affrontare la crisi. Qui la narrazione sembra, infatti, seguire uno spartito ben preciso nel raccontare il percorso emotivo di Sevdaliza, sia in relazione al mondo che la circonda, sia in relazione al destino o alle divinità; elementi che in un modo o in un altro compaiono spesso nell’album (Joanna, Darkest Hour, Comet).

Ma se nelle intenzioni la lunghezza di Shabrang offre spunti di analisi ed interpretazioni, nei fatti è forse il suo punto più debole, perché in alcuni frangenti l’ascolto è parecchio frustrante per la lunghezza e la complessità (a volte un po’ autoreferenziale) di alcuni brani e nondimeno viene richiesta una dose misurata di empatia per non rischiare di finire risucchiati in questa specie di buco nero.

E proprio come un buco nero, oscuro e terrificante come la fine di tutte le cose, ma anche seducente per la sua inaccessibilità e per misteri che nasconde, esercita un’attrazione inarrestabile e fatale su chi ha il coraggio di avvicinarcisi.

Tracce consigliate: Shabrang, Hadibi, Darkest Hour